(2015) XXII Convegno annuale SIdM - Perugia

 

Perugia, Conservatorio di musica “Francesco Morlacchi”

30-31 ottobre, 1 novembre 2015

Dépliant

Locandina

Hotel e Bed Perugia

Scheda di partecipazione

Programma e abstract

Venerdì 30 ottobre, ore 15

 

Auditorium

Indirizzi di saluto

  • Pietro Caraba, direttore del Conservatorio
  • Andrea Sassi, presidente del Conservatorio
  • Teresa Severini, assessore alla Cultura del comune di Perugia
  • Francesco Passadore, presidente della SIdM

 

Francesco Morlacchi, Magnificat in Fa maggiore per coro e orchestra
coro da camera e orchestra del Conservatorio, direttore Sergio Briziarelli

 

Venerdì 30 ottobre, ore 15.30

 

Auditorium, I sessione – presiede Bianca Maria Antolini

  • Alfonso Colella, Funzione della musica nella definizione di un modello identitario nobiliare: l’asse culturale Valencia-Napoli nella prima metà del ‘500. Abstract.
  • Marco Giuliani, Antologie e meta-antologie: ovvero vere antologie e antologie di antologie. Abstract.
  • Marina Toffetti, Per uno statuto della ricostruzione della polifonia incompleta. Abstract.
  • Alberto Macrì, Le diminuzioni nel volume Giordano 4 dell'intavolatura di Torino. Abstract.
  • Nadia Amendola, Nuovi accertamenti sulle poesie per musica di Domenico Benigni (1596-1653), «uomo nella poetica facoltà eccellentissimo». Abstract.
  • Alceste Innocenzi, Aspetti cabbalistici nell’opera di Angelo Berardi: il potere della musica. Abstract.

 

Aula 13, II sessione – presiede Paologiovanni Maione

  • James Blasina, Riabilitando Ainard di Dives come compositore di canto: l’ufficiatura per Santa Caterina d’Alessandria di Ste-Catherine-du-Mont. Abstract.
  • Piero Gargiulo-Alberto Magnolfi, Fortuna e ricezione di Marco da Gagliano (1582-1643): tre mottetti inediti. Abstract.
  • Paola Ronchetti, Musica, spiritualità e architetture durante la pestilenza a Roma al tempo di papa Alessandro VII (1656-1658). Abstract.
  • Licia Mari, Tra sinagoga e chiesa. Il fondo musicale della comunità ebraica di Mantova. Abstract.
  • Giuseppina Crescenzo, Fra Italia e Germania. Simon Mayr e la ricezione della lauda spirituale. Abstract.
  • Luigi Verdi, Parente di Giuseppe Verdi? No, di Settimio Battaglia (1815-1891) Nel 200° anniversario della nascita del compositore romano. Abstract.

 

ore 20 - Auditorium

La predica ai pesci. Scena da concerto di Maurizio Biondi su musiche di Gustav Mahler (lied Des Antonius von Padua FischpredigtScherzo della Seconda Sinfonia)

mezzosoprano Francesca Lisetto, ensemble da camera del Conservatorio, direttore Marco Momi

voce recitante Maurizio Biondi

 

Sabato 31 ottobre, ore 9

 

Auditorium, III sessione – presiede Biancamaria Brumana

  • Paolo Cavallo, Influssi bolognesi sulla produzione musicale piemontese tra Sei e Settecento: mito storiografico o realtà compositiva? Abstract.
  • Chiara Pelliccia, La libraria musicale del cardinale Benedetto Pamphilj: nuovi documenti. Abstract.
  • Giacomo Sances, Una famiglia di musicisti all’Opera Pia. Nuove fonti documentarie su Francesco Feo e i Manna dall’Archivio Storico dell’Opera Pia del Purgatorio ad Arco di Napoli. Abstract.
  • Carmela Bongiovanni, La libreria musicale genovese (1820-1930): nuove acquisizioni, nuove prospettive di ricerca. Abstract.
  • Gabriele Castagni, Riflessioni sull'opera di Giovanni Tebaldini al conservatorio di Parma (1897-1902). Abstract.
  • Nicola Lucarelli e Marta Alunni Pini, Mauro Presazzi, Cesare Ganganelli (allievi del corso di Strumenti e metodi della ricerca), Nuove fonti musicali a Perugia. Nuovi manoscritti di Francesco Morlacchi nella biblioteca del conservatorio e un manoscritto settecentesco del Miserere di Allegri nell'archivio della cattedrale. Abstract.

 

Aula 13, IV sessione – presiede Claudio Toscani

  • Fernando Caida Greco, Il Metodo di violoncello di Guglielmo Quarenghi. Abstract.
  • Barbara Bong, La Fiancée de Messine by Henry Vieuxtemps: an unknown tribute to grand opéra. Abstract.
  • Cristina Scuderi, «Cantò spiegando un tesoro inesauribile di grazia»: cantanti verdiane e critica musicale nell’Italia post unitaria. Abstract.
  • Elisabetta Andreani, Heinrich Heine: traduzioni e intonazioni in Italia e in Francia nella seconda metà dell’Ottocento. Abstract.
  • Federica Marsico, L’omoerotismo in Le Racine. Pianobar pour Phèdre di Sylvano Bussotti: una proposta ermeneutica. Abstract.
  • Nicola Montenz, L’ultimo mosaico? Die Liebe der Danae tra memoria musicale, letteraria e autorappresentazione. Abstract.

 

 

Sabato 31 ottobre, ore 15

 

Assemblea dei Soci e votazioni per il rinnovo delle cariche

 

Sabato 31 ottobre, ore 16.30

 

Auditorium, V sessione – presiede Luisa Curinga

  • Enrica Donisi, Riflessioni organologiche nella Scuola violoncellistica di Napoli e Aversa. Abstract.
  • Patrizia Florio, Le fonti della musica strumentale di Giuseppe Nicolini. Abstract.
  • Alessandro Restelli, Strumenti musicali all’Accademia di Belle Arti ‘Luigi Tadini’ di Lovere. Abstract.
  • Federico Gon, L’uomo che visse due volte, con una Finis Austriae di mezzo: furore e silenzio del compositore triestino Michele Eulambio. Abstract.

 

Aula 13, VI sessione – presiede Francesca Seller

  • Giulia Giovani, Giuseppe e Pietro Romolo Pignatta: un intrigo operistico internazionale?. Abstract.
  • Laura Toffetti, Musica, gesto e declamazione fra Seicento e Settecento. La percezione del ritmo in un’epoca precedente all’invenzione del metronomo: durate dei suoni o distanze tra di loro?. Abstract.
  • Giacomo Gibertoni, Cantate dialogiche e serenate (1706-1710) di Händel: una lettura drammaturgica. Abstract.
  • Tarcisio Balbo, Una nuova fonte sugli esordi di Anna Lucia De Amicis. Abstract.

 

Domenica 1 novembre, ore 9

 

Auditorium, VII sessione – presiede Galliano Ciliberti

  • Mafalda Nejmeddine, Analysis of sonatas for keyboard instruments of the second half of the eighteenth century: formal and stylistic characterization of Francisco Xavier Baptista’s sonatas. Abstract.
  • Danilo Prefumo, “Rinnovando antichi effetti obbliati”. La scordatura nelle opere di Niccolò Paganini. Abstract.
  • Roberta Milanaccio, Il revival vivaldiano. Il valore dell’inautenticità nella riscoperta della musica del passato. Abstract.
  • Costantino Mastroprimiano, Disambiguazione tra indicazioni dinamiche e agogica, nella letteratura per pianoforte tra fine Settecento e metà Ottocento. Abstract.
  • Maria Borghesi, Le Invenzioni a due voci di J.S. Bach: studio delle indicazioni interpretative nelle edizioni pratiche italiane tra Otto e Novecento. Abstract.
  • Ciro Raimo, «Gli insegnamenti strumentistici negli attuali Conservatori di Musica: a chi le ragioni, a Saverio Mercadante o a Francesco Florimo?». Abstract.

 

Aula 13, VII sessione – presiede Licia Sirch

  • Ian Dewilde, Paolo Litta's choreographic chamber music: a multidisciplinary approach. Abstract.
  • Gabriele Sfarra, Gian Francesco Malipiero compositore sistematico. Procedimenti compositivi e strutture formali nelle opere strumentali degli anni 1956-1964. Abstract.
  • Nicolò Palazzetti, «Una posizione di centro». Béla Bartók e Roman Vlad nel dopoguerra italiano. Abstract.
  • Alessandro Mastropietro, Marcello Panni e il gruppo ‘Teatromusica’: un percorso parallelo negli anni Settanta, tra sperimentazione e istituzionalità. Abstract.
  • Candida Felici, L’opera come frammento e l’albero di Tule: procedimenti intertestuali nelle opere della maturità di Franco Donatoni. Abstract.
  • Riccardo La Spina, Il Segretto di Susanna: Saverio Mercadante (1795-1870) and the origins of the salon bolero. Abstract.

 


Abstract 

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Nadia Amendola

Nuovi accertamenti sulle poesie per musica di Domenico Benigni (1596-1653), «uomo nella poetica facoltà eccellentissimo»

La ricerca storico-musicologica riguardante la produzione vocale può esprimere una molteplicità di prospettive, approcci e trattazioni che derivano dalla presenza inscindibile di musica e poesia. Con la presente proposta di relazione si vuole prendere in considerazione l'aspetto testuale della produzione di cantate e canzonette del XVII secolo e in particolare i testi per musica del poeta di origine marchigiana Domenico Benigni (1596-1653), membro dei più illustri circoli letterari dell'epoca, come l'Accademia degli Umoristi e dei Gelati, alto rappresentante della Chiesa al servizio dei Peretti e dei Pamphilj, poi cameriere segreto di papa Innocenzo X e a contatto con il fiorente ambiente musicale romano produttore di cantate. La produzione poetica di Benigni ci è pervenuta in varie antologie a stampa e in una raccolta di Poesie pubblicata quattordici anni dopo la morte del letterato (1667).

I testi di Benigni interessano compositori di musica vocale sia in maniera occasionale, come Marc'Antonio Pasqualini, Giacomo Antonio Perti o Marco Marazzoli, sia in maniera più sistematica, primo tra tutti Mario Savioni, seguito da Luigi Rossi e Giacomo Carissimi; di argomento prevalentemente profano, non disdegnano anche l'ambito sacro e morale, costituendo per i compositori coevi anche un possibile spunto per ampliare il repertorio tradizionale madrigalistico, come avviene ad esempio nella produzione di Savioni.

Partendo dagli sporadici studi riguardanti la poesia di Benigni, come la tesi dottorale di Robert R. Holzer, si ricostruirà in maniera più sistematica la biografia del poeta e l'ambiente culturale in cui ha operato. Si cercherà, poi, di riflettere sulla maniera in cui le strutture poetiche sono state utilizzate nella produzione di cantate e canzonette, ponendo particolare attenzione alle nuove attribuzioni delle fonti musicali.


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Elisabetta Andreani

Heinrich Heine: traduzioni e intonazioni in Italia e in Francia nella seconda metà dell'Ottocento

L'intervento si propone di illustrare il fenomeno Heine nella seconda metà dell'ottocento italiano e francese, sia sotto il profilo letterario che musicale e di mettere a confronto la ricezione musicale del poeta tedesco nei due paesi.

In Italia, se de Sanctis è il primo a sottolinearne l'importanza, è certamente il saggio di Tullo Massarani Enrico Heine e l'Italia a dare la svolta definitiva alla fruizione del poeta tedesco in Italia.

Con la pubblicazione de Il Canzoniere di Bernardino Zendrini nel 1865, traduzione di parte del Buch der Lieder, Heine viene servito su un piatto d'argento anche ai compositori. Le successive traduzioni di Carducci, Lungi lungi sull'ali del canto e Passa la nave mia con vele nere, darà un'ulteriore spinta alla vena compositiva degli autori a cavallo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

I primi a intonare le poesie in italiano saranno due importanti esponenti della critica musicale del tempo: Filippo Filippi e Eduardo Perelli (Edward). Seguiranno Sgambati, Catalani, Ponchielli, Mancinelli, Faccio, ma anche “perle” come Toscanini o l'eccentrico Padre Alessandro Capanna che opera, tra l'altro, un interessante collage tra diverse poesie di Heine. Sorprendente è inoltre il numero di musicisti meno famosi che si sforzeranno di intonare anche un solo testo di Heine, a volte con sorprendenti risultati artistici.

Heine si era trasferito a Parigi nel 1831 e nella capitale francese morirà nel 1856. Naturalizzato in Francia, ebbe comunque un rapporto sempre controverso con i francesi così come con i suoi connazionali tedeschi.

A Gérard de Nerval, primo illustre traduttore, ne seguiranno molti altri e molti saranno anche oltralpe i compositori che intoneranno le sue poesie in francese. Tra questi i noti Meyerbeer, Haan, Daniel-Lesur (nel '900), e molti meno noti, rendendo così molto simile il fenomeno nei due paesi.


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Tarcisio Balbo

Una nuova fonte sugli esordi di Anna Lucia De Amicis

La Biblioteca comunale «Alceste e Remigio Roccella» di Piazza Armerina (Enna) conserva, ai segni PS D III 45, un libretto del Catone in Utica di Pietro Metastasio per la musica di Egidio Romualdo Duni e «diversi maestri napoletani». Il libretto, stampato nel 1752 per una rappresentazione a Mazzarino (oggi in provincia di Caltanissetta), è interessante innanzitutto perché testimonia il perdurare dell'attività operistica nel locale teatro fondato negli anni Ottanta del Seicento dal principe di Butera Carlo Maria Carafa Branciforte, attestata finora solo da un libretto degli Equivoci nel sembiante di Alessandro Scarlatti datato 1688. Il Catone in Utica per Mazzarino costituisce altresì un documento utile per ricostruire gli itinerari delle compagnie operistiche che nel secolo XVIII diffondevano il linguaggio della cosiddetta ‘scuola napoletana' anche in centri di secondaria importanza; e grazie al dettagliato elenco dei mecenati (l'intera famiglia di Ercole Michele Branciforte, IV principe di Scordia) che sponsorizzavano i singoli membri del cast, il libretto è utile sia per comprendere meglio i meccanismi di patrocinio delle compagnie operistiche nel Regno di Napoli e in quello di Sicilia, sia per individuare i canali di trasmissione che portavano testi e partiture da Napoli verso l'Isola. Promotrice dell'allestimento mazzarinese era quasi certamente Maria Anna Pignatelli Tagliavia Aragona Cortés, sposa di un Branciforte, rampolla di una nobile famiglia che annoverava a sua volta diversi mecenati di cantanti, e dedicataria nel 1766 di un'opera comica con musica di Piccinni rappresentata al Teatro Nuovo di Napoli.

Ciò che rende ancora più interessante il libretto per Mazzarino è soprattutto la presenza nel cast di Anna Lucia De Amicis: la celebre cantante elogiata da Burney, Jommelli, Metastasio, Mozart, il cui esordio era finora fissato nel 1754 a Firenze come cantante comica. Il Catone in Utica del 1752 arretra di due anni il debutto ufficiale della De Amicis, per giunta nel repertorio serio, lo colloca all'estremo opposto della Penisola e fornisce, dal riscontro delle varianti rispetto all'intonazione di Duni usata come base per il pasticcio mazzarinese, il ritratto di una interprete dalle doti vocali e attoriali già spiccatissime nonostante la giovane età (se la De Amicis è nata, come pare, nel 1733, all'epoca del Catone in Utica per Mazzarino aveva appena diciannove anni).


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James Blasina

Riabilitando Ainard di Dives come compositore di canto: l'ufficiatura per Santa Caterina d'Alessandria di Ste-Catherine-du-Mont

Secondo Orderico Vitale, Ainard di Dives, un monaco del monastero di Santa Caterina (Ste-Catherine-du-Mont), Rouen, compose un'ufficiatura per Santa Caterina d'Alessandria. Nonostante sia possibile che la sua ufficiatura sopravviva, l'opinione di storici e studiosi è che questa composizione sia stata perduta o non sia mai esistita.

Questa comunicazione presenta una panoramica delle ufficiature per Santa Caterina che rivela una varietà diffusa e ricca di pratiche liturgiche, risalendo fino all'undicesimo secolo. Queste liturgie si possono collocare in tre famiglie liturgiche corrispondenti alle zone di diffusione del culto di Santa Caterina. Alla base di ogni famiglia si trova un'ufficiatura correlata ad una vita della santa e riportata in tre manoscritti diversi: Oxford, Bodleian Library, Bod. Ms 126, Parigi, BnF nal. ms 1083, e Napoli, BN, ms. XIII.G.24. Questa ricerca dimostra che queste tre liturgie sono approssimativamente contemporanee e che, contrariamente a quanto possa far pensare la distribuzione geografica di queste fonti, esse furono composte sotto la sfera di influenza della chiesa medioevale normanna, mettendo così in discussione la loro attribuzione ad Ainard.

Il tema del pellegrinaggio è evidente nell'ufficiatura di Santa Caterina rinvenuta in BnF nal 1083. Attraverso un'analisi paleografica e codicologica e un'approfondita esegesi del testo, questo studio sostiene che tale manoscritto non provenga da Duclair, come creduto in precedenza, ma che invece sia il primo manoscritto proveniente da Ste-Catherine-du-Mont, Rouen, luogo nel quale si trovano le reliquie della santa. L'ufficiatura per Santa Caterina contenuta nel manoscritto BnF nal 1083, che sarebbe rimasta a Rouen per poi essere trasmessa a est, è quindi la composizione perduta del monaco Ainard, adesso ritrovata.

Questa attribuzione riporta alla luce le attività composizionali di un personaggio fino a ora poco conosciuto nella storia del canto occidentale. Essa svela inoltre dettagli sulla vita musicale e liturgica di un monastero nascente, e di come esso abbia cercato di accrescere la sua posizione tramite la promozione liturgica delle sue preziose reliquie.


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Barbara Bong

La Fiancée de Messine by Henry Vieuxtemps: an unknown tribute to grand opéra

As one of the most outstanding violinists of the 19th century, the Belgian Henry Vieuxtemps (Verviers, 1820 - Mustapha Supérieur, 1881) is still remembered today for his virtuoso pieces and concertos. The lack of an exact scientific catalogue of his works has long dissimulated the fact that he also composed several vocal pieces, within which an unpublished grand opera in three acts entitled La Fiancée de Messine. Based on the same named drama by Friedrich Schiller, this opera saw the light between ca. 1854 and 1881 on a libretto by Auguste-Jean-François Arnould (Paris, 1803 - Saint Petersburg, 1854). In 2012 the manuscript scores hold by French descendants of the musician integrated the collections of the Royal Library of Belgium thanks to the Abbé Manoël de la Serna Fund of the King Baudouin Foundation. Totally unknown to musicologists until then, this sources offer a unique field of investigation, including two handwritten librettos, an autograph piano-vocal score, an unfinished orchestral score, several manuscript copies as well as a hundred pages of drafts. First of all, this paper will expose the genesis and reception of Vieuxtemps' Fiancée de Messine, retraceable by means of letters and press articles. The second part of the paper will offer a detailed analysis of the work, taking into account the operatic landscape of the second half of the 19th century and particularly the French grand opera tradition. Special consideration will also be given to the appropriation of the operatic genre by famous violin virtuosos; a phenomenon observable not only regarding Henry Vieuxtemps, but also his pupils Enrique Fernández Arbós, Jenö Hubay, Benjamin Godard and Eugène Ysaÿe.


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Carmela Bongiovanni

La libreria musicale genovese (1820-1930): nuove acquisizioni, nuove prospettive di ricerca

Un fitto sottobosco di commercianti, e editori di musica locali viene ad emergere a Genova tra 19° e 20° secolo, in un periodo in cui il dilettantismo musicale è assai diffuso a livello sociale e l'editoria musicale, anche a livello globale, raggiunge il suo apice ovunque. Di tale diffusione è diretta espressione l'iniziativa imprenditoriale di alcuni editori di Genova, in parte o esclusivamente di musica; alcuni di questi – rinvenuti grazie a spogli di data-base e di edizioni musicali effettuate presso la biblioteca del Conservatorio Paganini di Genova – risultano al momento pressoché sconosciuti. Una testimonianza editoriale di primo Ottocento è data dalla Litografia di Genova che negli anni '20 dell'Ottocento pubblica il Secondo rondò polacco per il piano-forte sopra un Aria favorita nell'Opera di Rossini composto da J. P. Pixis, opera 54. Altri nomi di librai, come Giovanni Garibaldi e il suo successore Amedeo Gagliardi, la cui attività è richiamata grazie ai timbri di possesso apposti sui singoli documenti a stampa, sono invece soprattutto legati al commercio locale genovese di musica e di libretti nel periodo considerato. Dai timbri di provenienza si evincono i cambi di gestione, le successioni e gli indirizzi dei diversi librai e editori, oltre che i generi musicali oggetto prevalente di commercio.

Alcuni di questi dati hanno integrato e precisato le conoscenze in fatto di produzione e commercio locale musicale, come ad esempio i rapporti di inizio Novecento tra l'editore genovese G. Bossola e lo stampatore di Leipzig C. G. Röder, o ancora l'aggiornamento degli annali dello stesso Bossola grazie agli avvisi editoriali apparsi sulle sue stesse edizioni musicali. Si tratta di precisazioni che con difficoltà trovano lo spazio per una segnalazione adeguata nei cataloghi collettivi di rete, visto lo spazio contenuto destinato alle precisazioni di inventario. L'analisi bibliografica di documenti anche tardo ottocenteschi e primo novecenteschi può quindi portare a interessanti riferimenti di ordine storico musicale non solo per quanto concerne la provenienza, ma anche e soprattutto per ciò che attiene la disseminazione di repertori specifici, quali quelli oggetto di attività musicali in contesti privati, e più in generale il commercio della musica.

È possibile studiare questa letteratura come documento della diffusione della musica nella società borghese della Genova tra l'Unità d'Italia e la prima guerra mondiale, non solo per la presenza tra i dedicatari di personaggi di rilievo della società borghese, ma anche per la ricorrenza tra gli autori di alcune compositrici, secondo un canone diffuso della Salonmusik che assegna un ruolo in questa musica 'leggera' all'intervento femminile.


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Maria Borghesi

Le Invenzioni a due voci di J. S. Bach: studio delle indicazioni interpretative nelle edizioni pratiche italiane tra Otto e Novecento

Nell'ultimo decennio lo studio delle edizioni delle composizioni bachiane ha interessato diversi studiosi in Italia: la ricerca di Gaia Bottoni ha offerto una panoramica su Le opere per tastiera di J. S. Bach nelle edizioni italiane tra Otto e Novecento, il lavoro di Emiliano Giannetti si è concentrato sulla revisione di Bruno Mugellini del primo libro del Clavicembalo ben temperato ed infine il corposo volume di Chiara Bertoglio ha proposto il confronto dettagliato di una scelta di edizioni pratiche italiane della raccolta dei quarantotto preludi e fughe.

Partendo da questi lavori, si intende proporre i risultati di uno studio sistematico condotto su dieci edizioni pratiche delle Invenzioni a due voci di J. S. Bach pubblicate in Italia tra il 1870 e il 1985 L'obiettivo è quello di ricostruire le peculiarità delle singole edizioni e di individuare i tratti ricorrenti della prassi esecutiva pianistica e della didattica bachiana in Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento in relazione con gli specifici contesti storico-culturali e le diverse scuole pianistiche.

Lo studio è stato condotto prendendo in esame le indicazioni interpretative apposte da ciascun revisore alla raccolta bachiana: dunque in questa sede si presenterà un confronto puntuale delle indicazioni agogiche e metronomiche, il fraseggio, le diteggiature, le dinamiche e l'ornamentazione mediante un sistema di rappresentazione dei dati in grafici e tabelle.


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Fernando Caida Greco

Il Metodo di violoncello di Guglielmo Quarenghi

La ricerca in questione si svolge intorno alla figura di Guglielmo Quarenghi (Casalmaggiore, 22 ottobre 1822 – Milano, 3 febbraio1882), uno dei più importanti violoncellisti italiani dell'Ottocento. Tra i protagonisti della scena musicale milanese, fu attivo come compositore e concertista. Primo violoncello dell'Orchestra del Teatro alla Scala, insegnò presso il Regio Conservatorio, proseguendo la tradizione dei suoi predecessori Giuseppe Sturioni e Vincenzo Merighi che, avendo ricoperto entrambe le cariche, possono a buon diritto essere considerati i fondatori della scuola lombarda di violoncello. Per il suo strumento, Quarenghi produsse varie composizioni e pubblicò un imponente trattato in cinque parti: è principalmente a questo lavoro che egli deve la sua fama. Edito dalla Editoria Musicale di Milano (che lo pubblicò in dispense mensili tra il 1877 e il 1879) e successivamente da Ricordi, il Metodo di Violoncello, presentato da Alfredo Piatti e valutato da una commissione di esperti, fu approvato e adottato dal Conservatorio di Milano. Successivamente la sua fama varcò i confini d'Italia e d'Europa. Il trattato di Quarenghi si rivela un documento in grado di offrire una nuova prospettiva sulla prassi esecutiva dell'epoca, soprattutto per la presenza di un capitolo unico nel suo genere dedicato alla realizzazione al violoncello del basso cifrato per l'accompagnamento dei recitativi d'opera: la relazione vorrebbe approfondire in particolare lo stato attuale delle conoscenze su quest'ultimo argomento. Fino a poco tempo fa infatti, i contributi principali erano quelli di musicologi che meritoriamente avevano gettato nuova luce su questa prassi e raccolto le informazioni alla base del nostro lavoro. In particolare, ricordiamo gli articoli di Claudio Bacciagaluppi (tra cui Primo violoncello al cembalo: l'accompagnamento del recitativo semplice nell'ottocento, «Rivista Italiana di Musicologia», XLI/2006, n. 1). In seguito, con l'aiuto di Renato Meucci, tali informazioni sono state sviluppate sfruttando il testo quarenghiano fino ad ottenere un'esecuzione convincente all'ascolto. A questo proposito, segnaliamo la prossima rappresentazione (9 e 11 di ottobre 2015) dell'opera Il viaggio a Reims di G. Rossini, che sarà messa in scena utilizzando per i recitativi il procedimento descritto. Brani di questo allestimento verranno presentati, a titolo di testimonianza, nel corso della relazione.


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Gabriele Castagni

Riflessioni sull'opera di Giovanni Tebaldini al Conservatorio di Parma (1897-1902)

Negli anni in cui ebbe la carica di direttore al Conservatorio del Carmine, Tebaldini fu accusato di voler piegare l'ordinamento degli studi a favore della musica sacra, trasformando un'istituzione regia in un avamposto del movimento ceciliano. Dovette così destreggiarsi nell'affrontare una campagna di diffamazione, pur continuando a svolgere con dignità e competenza il suo incarico. La infondatezza delle accuse fu infine provata, ma egli decise di affermare con intransigenza il proprio riscatto: rinunciò all'incarico e si allontanò definitivamente dalla città.

Successivamente esternò a più riprese, in numerosi scritti epistolari e memorialistici, il proprio dolore e talvolta il risentimento per le ingiustizie subite. Questi sfoghi sono ancor oggi così rilevati ed evidenti, entro il lascito molteplice delle sue testimonianze, da indurre i lettori a considerare i fatti parmensi e le circostanze infelici che li causarono come un contesto essenziale, a cui riferire l'identità complessiva del personaggio.

A una più accurata disamina delle fonti, questa si rivela un'operazione riduttiva. È inoltre possibile porvi rimedio: a patto di seguire, attraverso il molteplice apparato documentario, percorsi meno consueti e ufficiali, allineando a esempio le tracce di relazioni formative che risalgono fino agli anni di Parma.

Giunto alla direzione del Conservatorio, Tebaldini istituì due nuovi insegnamenti da lui stesso tenuti: Canto gregoriano e Polifonia vocale, che non incontrarono l'entusiasmo degli allievi ordinari, ma videro la partecipazione convinta del giovane Pizzetti. Ebbene, in alcuni luoghi del carteggio fra i due, questo straordinario allievo risale fino agli anni di studio, con l'intenzione di riconoscere al magistero di Tebaldini il merito di un riferimento costante ai modelli storici: non solo alla polifonia rinascimentale, ma anche a modelli anteriori e successivi lungo la direttrice del genere sacro. Inoltre, da alcune repliche dello stesso Tebaldini si può apprendere che il suo insegnamento contemplava l'analisi di opere fino al XIX secolo.

Affiora in tal modo il disegno di un orientamento didattico per quei tempi innovativo, che non si accontenta di sostituire le pratiche accademiche tradizionali, ma indirizza il percorso accademico all'obiettivo di un ideale estetico storicamente plausibile.

L'analisi di esempi citati nelle lettere di Tebaldini e dei loro riscontri in alcune opere di Pizzetti porta in evidenza un modello di pedagogia musicale al quale è ormai tempo di ricondurre, più accortamente, la molteplice figura di Tebaldini stesso.


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Paolo Cavallo

Influssi bolognesi sulla produzione musicale piemontese tra Sei e Settecento: mito storiografico o realtà compositiva?

Il presente contributo si pone l'obiettivo di identificare ed evidenziare le conseguenze delle opzioni compositive (di natura strumentale, morfo-sintattica, lessicale ed acustica) trapassate dalla scuola vocale e strumentale dell'area emiliana, più specificamente bolognese (con particolare riferimento alla produzione dei musicisti gravitanti intorno alla basilica di San Petronio tra XVII e XVIII secolo: Maurizio Cazzati, Giovanni Paolo Colonna, Giuseppe Torelli, Petronio Franceschini e Giacomo Antonio Perti), nelle opere di destinazione religiosa o liturgica dei compositori attivi in Piemonte in quello stesso periodo storico. Tali trapassi verranno colti mediante un approccio comparatistico tra gli esiti della scuola felsinea e quelli dell'area lombardo-sabauda risalenti al cinquantennio coincidente con il governo di Vittorio Amedeo II (tra il 1675 e il 1735), attingendo i rispettivi materiali – soprattutto manoscritti – da alcuni dei principali fondi musicali piemontesi (l'archivio dell'Arcidiocesi di Torino, l'archivio arcidiocesano di Vercelli, l'archivio capitolare di Asti, l'archivio diocesano di Aosta); la lettura critica si concentrerà sulla testura, sull'apparato strumentale e sulla dislocazione spaziale delle forze esecutive delle composizioni dei maestri di cappella sabaudi di quel periodo: Francesco Fasoli e Francesco Michele Montalto, maestri di cappella nel duomo di Torino tra il 1688 e il 1760, Andrea Stefano Fiorè, responsabile della cappella Regia della capitale sabauda tra il 1707 e il 1732, Domenico Tacchino, Giacomo Ambrogio Bissone, Giuseppe Maria Brusasco, Giovanni Antonio Costa, praefecti musicae e semplici canonici minori della cattedrale di Vercelli tra il 1672 e il 1735, e padre Francesco Maria Benedetti, maestro di cappella dapprima nella chiesa di San Francesco di Torino e quindi nel duomo di Aosta. Senza voler proporre un approccio deterministico e unidirezionale, che identificherebbe Bologna come unico centro d'irradiazione dell'innovazione strumentale nel nord Italia del tardo Seicento (laddove invece l'influsso della produzione dei musicisti ferraresi non pare così secondario, soprattutto guardando alle parti di opere a stampa, destinate a piccole formazioni di strumenti ad arco, conservate nell'archivio capitolare di Asti), lo sguardo si estenderà su tre tipologie di composizioni: quelle policorali, con e senza accompagnamento, i mottetti a poche voci accompagnate e le opere esclusivamente strumentali. Da esse sarà estrapolata una serie di lacerti utili a dimostrare quanto gli esperimenti timbrici e scritturali posti in essere dai musicisti piemontesi ed aostani fossero legati, in modo talora intertestuale, alla prassi compositiva peculiare di Bologna. Ciò permetterà di rivedere in modo più consapevole le conclusioni cui era approdata, nei decenni scorsi, la storiografia musicale dell'area sabauda, la quale aveva preferito concentrarsi, per compilare un indice dei valori e delle influenze, sulle strutture organizzative della musica della corte torinese, di chiara derivazione francese (si pensi alla fondazione delle bande degli oboi e dei violini del re nel tardo Seicento), trascurando i raffronti stilistici tra le musiche, manoscritte e a stampa, conservate nei fondi musicali del territorio sabaudo, che rinviano chiaramente alla tradizione compositiva dell'area padana.


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Alfonso Colella

Funzione della musica nella definizione di un modello identitario nobiliare: l'asse culturale Valencia-Napoli nella prima metà del '500

La mia relazione indaga sui rapporti culturali che già all'epoca di Alfonso il Magnanimo (1415-1458) vengono a stabilirsi tra la Corte napoletana e la Corte valenziana. Nel corso della prima metà del '500, all'interno di una rete sempre più fitta di scambi culturali tra queste due realtà, la musica viene ad avere una parte importante e ne troviamo riscontro in opere come la Cuestión de Amor (Anonimo, Valencia 1513) e El Cortesano (Valencia, 1561) di Luis Milán. Si tratta di opere che, oltre a distinguersi per il loro indiscusso valore storico-documentale, danno un'idea di come la musica svolga un ruolo decisivo nella formazione di uno specifico modello identitario nobiliare valenciano–napoletano nella prima metà del '500. Una parte centrale della relazione sarà dedicata al commento delle esecuzioni, vocali e vocali-strumentali (canciones, villancicos, sonetos, romances, coplas, letras de invenciones) presenti in modo diffuso all'interno del tessuto narrativo di queste opere col preciso obiettivo di: a) individuare l'area geografico-culturale di provenienza; b) ricostruire il contesto e le modalità in cui si svolge la performance musicale; c) definire i codici culturali e identificativi che contraddistinguono la nobiltà valenziano-napoletana nel periodo storico considerato.

Solide conoscenze di base in questo ambito di ricerche ci provengono fin dagli anni Ottanta del secolo scorso dalla new court history che, attraverso l'elaborazione di un ormai noto meta-modello umanistico della committenza, ha dato conto dei molteplici significati connaturati alla presenza della musica nelle corti tra '400 e '500. Questo fronte di ricerca ha costituito un modello per le successive ricerche sul mecenatismo e sulle cappelle musicali in ambito spagnolo. Anche l'area valenziana e napoletana sono state oggetto di questo tipo di indagine di carattere storico-archivistico. Più recenti, invece, sono i contributi della urban musicology e di specifici studiosi che si ispirano alle metodologie della new cultural history.

La mia impostazione tenta, tuttavia, di dare un contributo alla ricerca mettendo al centro non tanto l'evidenza “scientifica” del documento di archivio quanto piuttosto il narratore-testimone oculare che, all'interno della Cuestión de amor e del Cortesano, veste, di volta in volta, i panni sia del nobile – organico alle dinamiche di corte – sia del musicista, sia del semplice cronicista-osservatore.


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Giuseppina Crescenzo

Fra Italia e Germania. Simon Mayr e la ricezione della lauda spirituale

Sul frontespizio di un manoscritto ritrovato presso il Fondo musicale della Chiesa di S. Maria della Consolazione di Venezia, si legge “Laude spirituali a due ed anche a tre voci. Poste in musica dalli Maestri Mayr, Salari ed altri”. Le laude sono in totale 66 e all'incirca 50 sono da attribuire a Simon Mayr. Attraverso lo studio di questo documento si deduce che una sezione delle laude musicate da Mayr, ritrovate appunto nella chiesa dei filippini-redentoristi, appartiene ad Alfonso Maria de Liguori e alla tradizione alfonsiana redentorista.

Con la scrittura della lauda spirituale Mayr completa il suo ideale di ricerca intrapreso nella cittadina bavarese di Ingolstadt, allorquando inizia gli studi di teologia e di musica con i Padri Gesuiti. Giunto in Italia, si arricchisce della formazione musicale italiana ma lo spirito resta quello teutonico: lo si intravede nell'uso dell'orchestrazione e nella concezione religiosa con cui concepisce le opere sacre e, in particolar modo, le laude spirituali. Mosso dal bisogno e dal desiderio di educare e formare i propri allievi e i fedeli, in una forma colta elaborerà per la Chiesa di S. Maria Maggiore in Bergamo, di cui diverrà Maestro di Cappella dal 1802 al 1845, preghiere e componimenti sacri scritti in forma monodica precedentemente da Alfonso Maria de Liguori. Sembra che al momento non ci sia ancora una letteratura di riferimento che inquadri il rapporto tra le laude spirituali del Santo musicista Alfonso de Liguori e il bavarese italianizzato Simon Mayr. L'uno concepirebbe tale repertorio come canti popolari e l'altro come canti per il popolo. La relazione, intende analizzare le analogie e le differenze di tale repertorio dal punto di vista di Mayr e di de Liguori, e le finalità educative-formative di Simon Mayr.

Calato nel clima del movimento ceciliano e condizionato dalla sua formazione cattolica tedesca, Simon Mayr tende, attraverso la sua scrittura, alla verità e al bene. Lo studio, quindi, si pone anche l'obiettivo di dimostrare i motivi di una scelta di Simon Mayr e il contesto italo-tedesco entro cui vengono concepite le laude spirituali.

Ci stupisce, come afferma anche Valentino Donella, l'idea di un Mayr come operista che si sia dato così sistematicamente alla scrittura di tanta musica sacra colta, come Stabat Mater, Oratori, Salmi, Magnificat, Messe. Ci stupisce, però, ancora di più l'idea che un operista di origine tedesca si sia dedicato tanto alla musica sacra popolare di stampo alfonsiano-redentorista.

Rispetto allo stato attuale delle conoscenze, tale studio ha l'intento di approfondire una sezione del canto popolare religioso che inizia con il Laudario 91 di Cortona e termina con il Concilio Vaticano II.


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Jan Dewilde

Paolo Litta's choreographic chamber music: a multidisciplinary approach

Through its rich heritage collection, the library of the Royal Conservatoire of Antwerp has been researching topics that have not yet been explored. The last few years, the conservatoire could pride itself in innovative research on music libraries of Antwerp churches, on Wagner productions in Antwerp and on forgotten composers like Charles Duquesnoy (1759-1822), Charles-Louis Hanssens (1802-1871) and Peter Welffens (1924-2003). At the moment, there is a research project on the choreographic chamber music of Paolo Litta (Stockholm, 1871 – Fiesole, 1931). This Swedish-Italian composer, with strong connections to Belgium, wrote a number of chamber music works, considered special because of the cross-pollination between music and dance, the literary inspiration and the influence of movements such as exoticism and esotericism. Nevertheless, these works are deemed ‘terra incognita' in dance and music history and they have rarely been executed after Litta's death. The goal of this research project is to reconstruct and study the context in which these works were composed and executed, and to re-execute them, in a purely musical form and as a musical theatre piece. Furthermore, Litta's biography will be reconstructed, as will the path that took him from Stockholm through Belgium to Florence, and some of his representative music scores will be analysed.

For this project a multidisciplinary research group was put together within the Antwerp Conservatoire, which offers music, dance and theatre education, in order to discuss Litta's work both disciplinarily (analysis of the music score, study of the choreography) and interdisciplinarily (the connection between music and dance, the literary inspiration, the influence of exoticism, orientalism and esotericism).

This lecture is based on research conducted within the Antwerp Conservatoire – which will have reached an advanced stage by the time of the conference – and it provides an opportunity to associate this study with arts related research and musicological developments.


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Enrica Donisi

Riflessioni organologiche nella scuola violoncellistica di Napoli e Aversa

La rinascita della musica strumentale in Italia nell'Ottocento avviene anche grazie alla Scuola violoncellistica di Napoli ed Aversa e al suo caposcuola, Gaetano Ciandelli, allievo di Niccolò Paganini. La Scuola violoncellistica interviene in diversi settori della musica. La presente indagine verte su alcuni suoi esponenti e su aspetti organologici poco noti.

Per comprendere in che misura la Scuola violoncellistica sia importante da un punto di vista organologico, è necessario illustrarne le caratteristiche principali e cogliere i suoi legami con alcuni costruttori di strumenti musicali poco conosciuti a Napoli, in Terra di Lavoro e nel Sannio, alcuni dei quali hanno conquistato premi prestigiosi. Un esempio è offerto dal violoncellista Luigi D'Avenia, allievo di Ciandelli nell'Orfanotrofio di S. Lorenzo in Aversa e futuro costruttore di strumenti musicali.

Gli esponenti della scuola violoncellistica:

- maturano una forte sensibilità sulle possibilità timbriche degli strumenti (spesso ne collezionano le marche migliori), soprattutto ad arco;

- inventano nuovi strumenti e perfezionano quelli in uso;

- fanno parte di commissioni esaminatrici per valutare strumenti ed accessori, anche per scopi didattici;

- contribuiscono all'esportazione degli strumenti all'estero, in particolare degli strumenti ad arco.

A questa breve disamina seguiranno alcune riflessioni conclusive.


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Candida Felici

L'opera come frammento e l'albero di Tule: procedimenti intertestuali nelle opere della maturità di Franco Donatoni

Procedimenti intertestuali sono frequenti nell'opera di Franco Donatoni, dalla produzione giovanile fino alle opere tarde del cosiddetto periodo gioioso, passando attraverso le fasi dell'indeterminismo e dell'automatismo combinatorio. L'intertestualità si attua in Donatoni sia come trasformazione di un materiale musicale formalizzato proveniente dall'opera di un altro compositore (Stockhausen, Bach, Sinopoli, Schönberg), sia come trasformazione di un elemento estratto da una sua stessa composizione. Quest'ultimo aspetto della produzione musicale donatoniana, quello cioè dell'autocitazione, o auto-prelievo, è particolarmente frequente e significativo e si coniuga con l'idea di opera quale frammento di un insieme che comprende tutta la produzione di un autore. Quest'ultima però per Donatoni non ha alcuna ambizione di unitarietà e completezza, perché anch'essa non è altro che ‘parte' di un mondo in cui la ‘totalità' è solo chimera. La proliferazione di un pezzo dal precedente viene concepita come parte di quel continuo processo di trasformazione della materia che travalica, in modo organicistico, il confine della singola composizione. Nel corso della relazione verranno prese in esame alcune opere composte a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e caratterizzate dall'uso di procedimenti intertestuali, per indagare le modalità in cui tale processo si attua e il modo in cui esso influisce sulla formazione della forma. La quasi totale mancanza di materiali precompositivi per le opere donatoniane a partire dalla fine degli anni Settanta rende l'analisi dei procedimenti di derivazione particolarmente utile per indagare la genesi e l'articolazione formale delle composizioni in questione.

La relazione vuole contribuire a indagare un autore che ha rivestito un ruolo centrale nella seconda metà del Novecento, che tuttavia ha suscitato scarso interesse nella ricerca musicologica degli ultimi anni; ben 25 anni separano la pubblicazione del volume monografico curato da Enzo Restagno e gli atti del convegno tenutosi a Parma nel 2013, curati dalla scrivente e in corso di stampa per i tipi della LIM. Nel frattempo due tesi dottorali americane (rispettivamente sul periodo dell'indeterminismo, Yotam Haber, e sull'ultima fase compositiva, Bradley Decker), una tesi italiana (sul pensiero e l'attività didattica di Donatoni, Rocco De Cia) e un articolo di Mario Baroni sulla genesi dell'opera Duo pour Bruno costituiscono gli unici studi di rilievo sulla figura di questo autore. Gli atti del convegno di Parma si propongono di aprire nuove piste d'indagine e suscitare nuovo interesse su questa figura così centrale nell'Italia del secondo dopoguerra. La relazione qui proposta costituisce una nuova tappa negli studi intrapresi dalla scrivente sull'intertestualità, in Berio (Procedimenti intertestuali e articolazione della forma nell'opera di Luciano Berio, «Gli spazi della musica», II/2, 2013) e in Donatoni (Intertestualità e processi compositivi in …ed insieme bussarono e Rima di Franco Donatoni, in Franco Donatoni. Gravità senza peso. Atti del convegno di studi, Parma 30 novembre 2013, in corso di stampa).


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Patrizia Florio

Le fonti della musica strumentale di Giuseppe Nicolini

Dopo gli studi svolti sulle fonti delle opere melodrammatiche di Giuseppe Nicolini, che hanno visto la pubblicazione del saggio Le fonti dei melodrammi di Giuseppe Nicolini: persi e ritrovati negli atti del Convegno, Giuseppe Nicolini 1762-1842 a cura di P. Florio, G. Pianigiani, P. Radicchi, A. Sorrento, Pisa, ETS, 2012 (Quaderni del Conservatorio Nicolini, 2), la ricerca si è rivolta alle fonti delle opere strumentali. Una prima ricostruzione delle opere, alquanto sommaria, del compositore piacentino era apparso nel volume a cura di Carlo Censi, Un maestro di musica piacentino: Giuseppe Nicolini (Piacenza, 1944), pubblicato in occasione del centenario della morte del compositore.

Se il repertorio melodrammatico è ampiamente documentato anche attraverso le testimonianze della stampa periodica coeva, cronologie dei teatri, ecc., la situazione della musica strumentale è molto più incerta. Una prima analisi della musica da camera è stata svolta da Mariateresa Dellaborra nel saggio La musica da camera di Giuseppe Nicolini, pubblicato nel volume già citato Giuseppe Nicolini 1762-1842 (Pisa, ETS, 2012), ma gli ultimissimi anni hanno visto il ritrovamento di nuovi manoscritti, per cui si è notevolmente ampliato il panorama del repertorio strumentale del compositore. La relazione intende fare il punto sulle nuove acquisizioni della Biblioteca del Conservatorio di Piacenza, che ha potuto aggiudicarsi da una vendita all'asta di diverse opere strumentali di Nicolini, che testimoniano quindi un significativo interesse verso la musica strumentale del compositore, apprezzato soprattutto dai contemporanei come operista.

Il catalogo delle opere di Nicolini si è così ampliato di due concerti per violino e orchestra e uno per due violini e orchestra, opere per clavicembalo, duetti per due viole, ecc. Scopo della ricerca è quindi in primo luogo la ricostruzione del catalogo delle opere del compositore, in modo da comprendere la sua posizione e la portata nei confronti della musica strumentale coeva italiana e d'Oltralpe.


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Piero Gargiulo-Alberto Magnolfi

Fortuna e ricezione di Marco da Gagliano (1582-1643): tre mottetti inediti

La relazione intende valorizzare la figura dell'autore. Madrigalista, mottettista, oltre che protagonista non minore della Camerata De Bardi, con una sua Dafne (Mantova 1608).

Gargiulo ne ripercorrerà brevemente la produzione; sei libri di Madrigali, più uno di Musiche a una due e tre voci; Magnolfi analizzerà i tre mottetti. Presumibile assemblaggio di fascicoli ad uso dei maestri del coro che operarono nella fiorentina chiesa cattedrale di Santa Maria del Fiore, il manoscritto Basevi CF.96 (già I-Fc E.I.117) si presenta come un'antologia di 65 composizioni vocali sacre scritte per soddisfare le esigenze cerimoniali di alcune delle principali festività dell'anno liturgico. Accanto a lavori di celebri autori di scuola romana e veneziana, si trovano infatti opere di vari musici practici, maestri di cappella e organisti succedutisi nel tempo, probabilmente redatte per qualche ricorrenza o in funzione di un particolare organico di cantores e incluse nella silloge in previsione di un possibile nuovo utilizzo: tra i musici figura appunto lo stesso Gagliano. con in particolare il brano Tuam crucem adoramus, che sarà oggetto di specifica valutazione.


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Giacomo Gibertoni

Cantate dialogiche e serenate (1706-1710) di Händel: una lettura drammaturgica

Le forme della cantata e della serenata sono state oggetto, negli ultimi decenni, di un rinnovato interesse negli studi musicologici, tradottosi in edizioni critiche, in progetti di censimento e schedatura delle fonti, e in ricerche su singoli compositori.

Nel complesso risultano meno indagati i contenuti e le strutture dei testi poetici, il loro statuto retorico-letterario, le relazioni col dramma per musica, così come i caratteri stilistici delle musiche. La manualistica e la letteratura specialistica hanno sovente sottolineano le liaisons fra melodramma e queste forme vocali, consolidando il cliché storiografico che assimila cantate e serenate a più voci a melodrammi ‘in miniatura' e quelle per voce sola a virtuali scene d'opera. Tale giudizio tuttavia, se da un lato trova un evidente riscontro nella constatazione che cantata e serenata utilizzano le medesime strutture poetico- musicali (aria col ‘da capo', recitativo, brani d'insieme) e le medesime tematiche (pastorali, mitologiche, storiche) del coevo melodramma, dall'altro è stato raramente suffragato da indagini puntuali su ulteriori dispositivi di natura teatrale, la cui eventuale presenza determini una effettiva omologia funzionale fra questi generi e il dramma per musica.

Nella nostra ricerca assumiamo come oggetto di indagine il raffronto fra le forme della cantata e della serenata e quelle del dramma musicale, declinandolo nel concreto caso di studio costituito dalle composizioni scritte da Händel in Italia negli anni 1706-1710: le quattro cantate dialogiche Aminta e Fillide HWV 83, Clori, Tirsi e Fileno HWV 96, Il duello amoroso HWV 82, Apollo e Dafne HWV 122 e la serenata Aci, Galatea e Polifemo HWV 72. Di questi lavori proponiamo una lettura ‘drammaturgica', tesa ad individuare dispositivi di ascendenza teatrale sia nei testi poetici, sia nella risposta del compositore. Dei dati emersi offriamo un'interpretazione che istituisce una relazione fra la categoria del ‘drammatico' presente in queste composizioni e il particolare contesto culturale e spettacolare nella Roma del primo decennio del Settecento. In tale periodo, un pluriennale bando contro ogni forma di spettacolo teatrale trasforma infatti il dramma per musica, genere in gran voga nella Roma seicentesca, in una sorta di ‘convitato di pietra', e parimenti determina nella committenza un crescente desiderio di ricreare la proibita dimensione teatrale fuori dal teatro stesso, facendola rivivere nelle accademie della nobiltà romana, grazie a un potenziamento di quegli elementi drammatici già presenti in nuce nei generi della cantata e della serenata.


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Giulia Giovani

Giuseppe e Pietro Romolo Pignatta: un intrigo operistico internazionale?

Nel 1693 destò scalpore la fuga di Giuseppe Pignatta dal carcere dell'Inquisizione romana in seguito a una condanna a vita per eresia. Egli – una volta messosi al sicuro grazie ai mecenati del fratello Pietro Romolo, maestro di cappella di Sant'Apollinare in Roma prima e del principe Johann Seyfried von Eggenberg poi – pubblicò un libro di memorie (Les aventures de Joseph Pignata échappé des prisons de l'Inquisition de Rome) ricco di riferimenti alla musica. Tra le righe della cronaca della fuga estenuante, infatti, si legge la passione musicale di Giuseppe (è tutt'oggi conservata una sua cantata alla Biblioteca Casanatense di Roma) e la sua attività di redazione di libretti per oratori e drammi poi intonati dal fratello. Il nome di Giuseppe Pignatta, tuttavia, non compare mai nei libretti a causa del suo stato di clandestinità.

Attraverso la lettura di alcuni passi delle memorie di Giuseppe (talmente affascinati da aver attratto l'attenzione di Magnus e Tisselli, che le hanno rese in un fumetto di tre volumi), delle dedicatorie dei libretti di Pietro Romolo e di alcuni passi degli stessi, sarà indagata la collaborazione tra i due fratelli Pignatta e il ruolo svolto dal principe von Eggenberg e dagli altri dedicatari delle opere nella fuga e nella riabilitazione (benché esclusivamente artistica) del condannato romano.


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Marco Giuliani

Antologie e meta-antologie: ovvero vere antologie e antologie di antologie

La denominazione che il lettore comune usa più frequentemente per identificare un libro di madrigali o di canzonette di vari autori è, senza dubbio, antologia. Limitandoci al repertorio vocale in italiano stampato nei 100 anni di vita del madrigale, la complessa sfaccettatura del termine antologia è dovuta al fatto che essa viene utilizzata sia nel caso di raccolte di opere o brani di uno solo che di più autori, sia nel caso di opere omogenee e non (per es. dal punto di vista formale, come madrigali, canzonette, mottetti ecc.), sia che si tratti di brani di epoche, stili, organici, generi, funzioni, o codici diversi. L'inadeguata ed estesa mancanza di specificità che antologia sottintende ci ha confermato l'importanza di distinguere due aspetti fondamentali di tale questione, separare cioè le 'raccolte' di opere originali da quelle già note, contemplando eventualmente i casi promiscui, così da giudicarli e convalidarli al prevalere di una delle due componenti: non apparterrebbero alla generica e impropria denominazione 'antologica' molti studi su stampe collettive originali, come le 'black-notes anthologies' di Harrán, i 'Lauri ferraresi' for Laura Peperara di Newcomb, o Gli Eccellentissimi musici di Bologna di Piperno, ecc.; è noto infatti che Palestrina, Rore, Willaert, Gabrieli e molti altri madrigalisti ci hanno consegnato una parte cospicua della propria produzione nelle raccolte collettive. La questione sulla presunta centralità dell'autore, spesso non critica, che vuole e vede gravitare ogni opera attorno alla figura del grande inventore-compositore, misconosce in tutto, o in parte il progetto editoriale originario. Fino ad oggi, non si è quasi mai ritenuto necessario distinguere i gradi di originalità della compilazione e delle sue componenti, per quanto concerne la totalità del libro; ora però, anche grazie a nuovi strumenti bibliografici come il RIM possiamo distinguere quali libri contengano materiali inediti (o per lo più inediti) e quali no, perciò è giunto il tempo di stabilire dei marcatori certi tra ciò che si può considerare 'antologia' intesa come strumento divulgativo di repertori già noti e ciò che è edizione collettiva originale. Nella presente indagine abbiamo indagato e indicato quali siano quali le vere antologie (e quali le edizioni collettive e le miscellanee), argomentando in che cosa consistano le eventuali discrepanze rispetto alla prima edizione, perciò possiamo finalmente assegnare a questo paragrafo i libri collettivi che rispondono fedelmente a criteri antologici.

Ci preme qui sottolineare che l'antologia, ancorché priva di originalità nei suoi singoli contributi, in quanto strumento bibliografico, può rivelarsi di straordinario interesse per lo studioso moderno: lo si nota per la sua formidabile capacità documentaria di circolazione-recezione-interpretazione dei brani contenuti, nonché per i criteri di selezione che emergono, per il gusto, lo stile e celebrità (anche quantitativa) sottesi a tali compilazioni di tanti autori. Si noti che se un libro è identificabile con sicurezza nella forma di antologia tutti i brani ivi contenuti, anche quelli fino allora non ancor visti (inediti o presunti tali) andranno considerati di prevalente impianto antologico, diventando perciò potenziali marcatori di edizioni non pervenuteci. Lo studio, tra l'altro, ha esaminato i contenuti della quasi totalità degli oltre 150 libri di musica vocale in italiano di vari autori e fornisce un utile prontuario per una discriminazione dei criteri compilativi sottesi alle edizioni di vari, soffermandosi sui casi più emblematici come La Eletta di tutta la musica (1569) o la Spoglia amorosa del 1584.


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Federico Gon

L'uomo che visse due volte, con una Finis Austriae di mezzo: furore e silenzio del compositore triestino Michele Eulambio

La figura del compositore triestino Michele Eulambio (1881-1974) è oggi completamente dimenticata; talento precocissimo, studiò e si diplomò presso il Conservatorio di Lipsia, dove ebbe quali docenti Hofmann e Zollner (armonia e composizione) e dove studiò direzione col leggendario Arthur Nikisch. Ebbe inoltre rapporti con Richard Strauss, Puccini, scrisse lavori eseguiti da bacchette eccellenti come Dimitri Mitropulos ed ebbe commissioni da prestigiose istituzioni quali il Teatro di Corte di Lipsia e la Gewandhaus, in cui ebbe anche occasione di dirigere. Questa brillante carriera, espressa sia in ambito strumentale che operistico (la sua Ninon de Lenclos del 1912 tenne il cartellone per un decennio nei maggiori teatri tedeschi) si interruppe bruscamente con lo scoppio della Prima guerra mondiale: Eulambio, di origine greca e figlio tra i più tipici di quella borghesia mitteleuropea il cui crogiolo di razze e religioni era rappresentato dalla fiorente attività mercantile di Trieste, si inscrive pienamente nel solco del tardo romanticismo tedesco e pertanto si ritrovò, a guerra conclusa, in un ambiente musicale diverso, ovvero quello italiano dominato dal melodramma verista, poco incline ai suoi entusiasmi teutonici. Pur non cessando del tutto l'attività compositiva (visse per qualche anno a Napoli, dove fece amicizia con Salvatore Di Giacomo, dedicandosi prevalentemente alla composizione di liriche per canto e pianoforte), si trasferì definitivamente in una piccola città della provincia goriziana (Gradisca d'Isonzo), e visse il resto dei suoi giorni a pensione, umile, schivo e solitario, guadagnandosi da vivere insegnando materie musicali nelle locali scuole medie. Una parabola artistica e biografica quantomeno singolare, una carriera brillante interrotta dai tumulti della guerra e dall'incapacità di superarne le conseguenze socio-politiche; non certo dalla mancanza di ingegno, dato che una semplice occhiata alle sue partiture (edite da Ricordi, i cui autografi sono conservati un fondo speciale presso il Civico Museo Teatrale “C. Schmidl” di Trieste) consente di comprenderne l'abilità compositiva e l'equilibrio fine della scrittura, attenta come quella di pochi altri contemporanei (forse il solo Cilea) a dosare con temperanza elementi formali ed armonici della scuola tedesca col lirismo tipicamente italiano.

L'obbiettivo di questa prima indagine approfondita sulla figura di Eulambio (cui tutt'oggi sono riservate solo poche tracce in alcuni Dizionari musicali) è sicuramente quello di riportare all'attenzione degli studiosi l'egregia fattura della sua produzione, che si inscrive pienamente nel gran calderone dei mutamenti artistici a cavallo di secolo, nonché di definirne più nettamente la figura sulla scorta di testimonianze dirette di coloro che lo conobbero, ampliando così l'indagine stilistica con aspetti storici e biografici che rendono questo autore quasi un unicum per l'estremo divario tra la fortuna degli esordi e la miseranda fine, sicuramente tra i più sottovalutati del Novecento italiano.


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Alceste Innocenzi

Aspetti cabbalistici nell'opera di Angelo Berardi: il potere della musica

L'opera teorica di Angelo Berardi risulta essere un compendio di aspetti della disciplina musicale: dalla grammatica alle definizioni di armonia e contrappunto, dalla classificazione di forme, connotazioni espressive e stili compositivi alla tecnica ed esecuzione vocale fino alla descrizione e catalogazione di strumenti, il tutto passando attraverso una serie di definizioni, tratte da testi sacri quanto profani, sul valore educativo ed estetico della musica come ‘arte liberale' (egli immaginava possibili relazioni tra elementi musicali e non, includendo anche elementi cabbalistici). I suoi lavori rappresentano uno dei contributi più importanti alla trattatistica italiana nell'arco di due secoli. Pur nella varietà dei modelli di studio affrontati, il dettato teorico fa convergere queste opere verso una complessiva assimilazione della materia, per giungere ai migliori esiti della Professione Armonica, indispensabile a chi pretenda di apprendere e trasmettere l'esercizio dell'arte compositiva.

Negli scritti di Berardi, come detto, si fa spesso riferimento ad elementi cabbalistici (le corde della lira di David, le sefirot, i pianeti, gli angeli). Al capitolo 10 della sua Miscellanea musicale (1689) egli si pone, in particolare, una domanda: da dove deriva il potere della musica? Tra le due possibili risposte, dalla musica stessa oppure dalle caratteristiche degli strumenti musicali, Berardi disserta sulla seconda «conformemente alle opinioni dei cabbalisti».

In conclusione dei suoi ragionamenti egli, però, rifiuta “l'opinione dei cabalisti” o meglio l'applicabilità dei loro principi. Nella discussione, egli indirettamente conferma ciò che è ben risaputo dai primi trattati di teoria musicale: la musica può essere affrontata attraverso la musica stessa, come musica practica, oppure attraverso le sue connessioni e connotazioni extramusicali, come musica speculativa. Ma il suo rifiuto della musica speculativa («la musica speculativa non è più essenziale per la scientia musicae […] vi si discorre delle materie più curiose della Musica […] con l'intreccio di bellissimi segreti)», viene contraddetto dall'ampia trattazione che ne fa in altri trattati (Ragionamenti musicali, 1681 e Documenti armonici, 1687); pertanto l'interrogativo diventa il seguente: qual è il reale pensiero di Berardi intorno a questo argomento?

La risposta sembra trovarsi nella trattazione del contrappunto, poiché grazie a questo «l'arte, fabbricando sopra gli insegnamenti della natura, ha ridotto la musica a una perfezione che non vi è potere che non soggiochi né impossibilità che non superi».


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Riccardo La Spina

Il Segretto di Susanna: Saverio Mercadante (1795-1870) and the origins of the salon bolero

In the 1820s and 1830s, the worlds of stage and salon (tertulias, in Spain) intersected, the latter drawing the operatic composer into its milieu, where, often unnoticed, new musical forms were evolving. Though himself a major operista, Saverio Mercadante (1795-1870) was not exempt from involvement in salon life (himself later known for hosting his own serate). An innovator in his stage works, his earlier contribution to the evolution – and possibly, re-introduction – of the vocal bolero has yet eluded the attention of scholars. This very likely stems from the fact that he demonstrated his grasp of the Spanish idiom mainly on the operatic stage, via two works composed in Spain, I due Figaro (Madrid, 1826), and Don Chisciotte alle nozze di Gamaccio (Cádiz, 1830). Yet, while not as well-documented, the salon also served as a forum of Mercadante's early bolero contributions. These, in turn, beg a case study as possible antecedents of the very term and idea of 'bolero' as a vocal salon form subsequently picked up by pianists, if not as the very point of origin, certainly as a hitherto overlooked antecedent of extraordinary early influence in the form's establishment and progression. Within the context of the fledgling ‘bolero' concept then existing as a newly-formed genre hybrid of certain Spanish song and dance forms, and with Susanna's ‘bolero' from (I Due Figaro) as flashpoint, new, unknown sources now bridge the composer's development of the form towards the song La Zingara Spagnuola. Introduced in 1835 Paris, this was later paraphrased by Liszt (whose admiration for the Italian composer is well-documented), bringing to mind a possible correlation with the virtuoso's later reference to a “Parisian bolero” type.

Our inquiry into both Mercadante's works and career, and musical life in early Nineteenth-century Spain (to c.1840) developed in relation to the interesting discoveries bespeaking the bolero's European salon origins outside Spain (Paris, in particular). In tracing the early development of the Bolero as song-form and its double-life origins between the operatic stage and salon in Mercadante's work, we transcend the mere representation of obscure, unstudied sources by raising the question of their role as a primordial influence over the bolero's early introduction and perception. We shall explore how the Italian composer as early non-Hispanic proponent of the 'bolero' song-form outside of Spain may have – by example – been responsible for the particular way in which it was eventually planted in the popular imagination and minds of his contemporaries, most famously List and, eventually Verdi, among them.


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Nicola Lucarelli e Marta Alunni Pini, Mauro Presazzi, Cesare Ganganelli (allievi del corso di Strumenti e metodi della ricerca bibliografica)

Nuove fonti musicali a Perugia. Nuovi manoscritti di Francesco Morlacchi nella biblioteca del conservatorio e un manoscritto settecentesco del Miserere di Allegri nell'archivio della cattedrale

La revisione della schedatura dei manoscritti, effettuata anche con il confronto ora possibile online con il Rism e con le risorse di Internet Culturale, ha permesso di correggere diversi errori e fraintendimenti di quella precedente ormai risalente a più di trenta anni fa (restituendo per esempio a Rossini un'aria dell'Italiana in Algeri erroneamente attribuita dal copista a Morlacchi) e anche il recupero di alcuni fra i manoscritti non schedati nella precedente sessione, ma che rivestono un notevole interesse, come ad esempio la cavatina di Bettina dalla Gioventù di Enrico V in una versione per canto e pianoforte con varie correzioni, che potrebbe verosimilmente essere la prima stesura per mano del compositore.

La ricerca negli archivi ecclesiastici può riservare spesso piacevoli sorprese ed è così che è accaduto per il manoscritto perugino del Miserere di Gregorio Allegri, classificato dallo schedatore del catalogo del fondo come settecentesco, a cui era forse stata riservata poca attenzione se non per il fatto che nel frontespizio vi era un evidente errore e misconoscimento dell'autore indicato come “Giovanni Allegri di Palestrina detto il Praenestino” - tale fra l'altro è ancora la classificazione presente nel RISM. Un qualche interesse però poteva suscitare il titolo, che testualmente recitava: Miserere romano o sia de Vaticano a 2 cori, che a qualunque studioso dell'Allegri poteva dire ben più dell'equivoco del nome, ma legarsi a una tradizione romana o meglio vaticana, che in effetti presenta notevoli diferenze dalla “vulgatae” dei vari Burney o Thibaut, che verosimilmente si rifacevano alla versione rivista e corretta di Tommaso Bai (1714) e non all'originale.

In effetti proprio questo emerge dal confronto sia degli incipit che delle varie versioni integrali che sono state reperite sia fra quelle digitalizzate a stampa e manoscritte ormai disponibili online, sia fra quelle consultate direttamente e cioé che la versione perugina si rivela molto vicina a quella del codice Sistino del 1661 e alquanto diversa appunto da quelle diffuse da Burney o in ambito tedesco.

La versione perugina presenta diversi punti di contatto con le versioni romane (sia quelle vaticane che quella casanatense), mostrando quindi una diffusione dell'opera di Allegri parallela, ma divergente rispetto a quelle “attualizzate” settecentesche e riporta l'attenzione probabilmente sul vero carattere dell'opera che per vari motivi anche storici è stata sempre al centro della storia della musica, forse non tanto per la sua bellezza intrinseca, ma probabilmente per l'aura di mistero legata al divieto papale. E' noto che alcune copie furono diffuse dagli stessi pontefici, ma una circolazione di trascrizioni più o meno fedeli si verificò ben presto sulla base di ricostruzioni effettuate “ad orecchio” di cui forse la più nota è quella testimoniata in varie lettere dal padre Leopold ad opera di Mozart fanciullo. Nella relazione verranno quindi analizzate le differenze non solo melodiche, ma talvolta anche armoniche delle varie versioni, concentrandosi specialmente sulle caratteristiristiche della versione perugina.


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Alberto Macrì

Le diminuzioni nel volume Giordano 4 dell'intavolatura di Torino

L'intavolatura di Torino rappresenta un importantissimo manoscritto per la conoscenza, lo studio e la trasmissione del repertorio tastieristico tra fine Cinquecento e i primi decenni del XVII secolo. Ancora poco studiato, è un monumento la cui straordinaria ricchezza può fornire ancora molta materia di indagine. La lenta e progressiva codificazione della prassi delle diminuzioni improvvisate raggiunse, col tempo, un elevato livello di complessità e definizione. Al gusto degli autori e degli strumentisti, oltre all'arte della diminuzione, erano lasciate anche le decisioni circa la musica ficta, spesso non specificata: tutte queste competenze presupponevano in ogni caso una notevole capacità esecutiva esercitata al di là del testo musicale per iscritto. Nel corso del XVII secolo era prassi consolidata richiedere agli strumentisti di 'abbellire' la musica scritta sia attraverso diminuzioni, inserendo note di durata breve in mezzo a note costituite da valori più lunghi, sia rielaborando il profilo melodico complessivo del brano con ampi passaggi.

La relazione riguarderà l'analisi sia di semplici passaggi ornamentali sia di diminuzioni particolarmente estese in relazione al modello vocale prescelto.


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Licia Mari

Tra sinagoga e chiesa. Il fondo musicale della comunità ebraica di Mantova

La Comunità Ebraica di Mantova ha avuto un ruolo importante nella vita e nella cultura, non solo cittadina, soprattutto tra il XV e il XVII secolo: basti solo ricordare in questa sede i contributi dati al teatro e alla musica da Leone de' Sommi e da Salomone Rossi. Ma, pur riducendosi nel numero di componenti, nel corso dei secoli è sempre stata vivace e ha mantenuto – nonostante l'occupazione tedesca del 1943/44 – un archivio storico della consistenza di alcune decine di migliaia di carte, che partono dal 1522 per arrivare alla metà del XX secolo. All'interno di questo materiale (inventariato per quanto riguarda la parte storica e amministrativa; digitalizzato in buona percentuale e visibile on line sul sito della Biblioteca Teresiana di Mantova) si trova una serie di cosiddette “Partiture musicali”. Si tratta di un fondo prevalentemente ottocentesco, che racchiude brani di vario genere (due migliaia di carte circa, in gran parte copie manoscritte), che ha visto un primo sommario riordino che ne permette la consultazione, ma che meriterebbe una analisi più approfondita per una vera e propria inventariazione. I pezzi che sono conservati possono offrire uno spaccato della vita musicale e religiosa, sono presenti compositori italiani e stranieri (francesi come Halévy), ed emerge come si intrecciassero rapporti con la comunità cristiana locale. Infatti vi sono compositori di famiglie ebraiche (Norsa, Finzi), ma anche maestri cattolici (che lavoravano sia nei teatri che nelle chiese, come Lucio Campiani e Francesco Comencini), i quali insegnavano nella scuola di musica israelitica e fornivano brani per i momenti di preghiera. Nel contempo, i ragazzi ebrei studiavano presso la scuola comunale di musica e partecipavano alla vita teatrale cittadina. Una prima esplorazione di tale repertorio ha messo in luce alcuni brani significativi, come quelli di Campiani (al cui nome si intitola il Conservatorio locale e di cui è in corso un aggiornamento biografico e del catalogo delle opere), oppure un Quaddish scritto su musica di una scena di Aida di Giuseppe Verdi. Al di là di queste “scoperte” singole, l'intervento vorrebbe proporre una visione più complessiva e insieme più approfondita delle caratteristiche del repertorio, nel contesto della cultura della comunità sia ebraica che civile e della produzione musicale del periodo.


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Federica Marsico

L'omoerotismo in Le Racine. Pianobar pour Phèdre di Sylvano Bussotti: una proposta ermeneutica

La figura di Sylvano Bussotti, uno degli ultimi testimoni del clima di fervore creativo che caratterizzò la musica del secondo Novecento, non gode ancora della meritata attenzione da parte della musicologia. Alcune recenti ricerche hanno risvegliato l'interesse per la sua musica (Evangelista 2013; Iotti 2014), facendo seguito ai saggi più datati, ma fondamentali per l'inizio degli studi bussottiani (La Face 1974; Maehder 1984, 1991, 2003; Ulman 1996); tuttavia ancora molto resta da fare.

Il presente contributo si concentra sull'opera Le Racine. Pianobar pour Phèdre (Milano, Piccola Scala, 1980) in un prologo, tre atti e un intermezzo, su un libretto del compositore tratto dalla tragedia Phèdre di Jean Racine. Poiché dalle recensioni relative alla première si comprende che fra le ragioni che determinarono il mancato apprezzamento dell'opera vi fu il suo esplicito riferimento all'omosessualità, si cercherà in questa sede di fare emergere come l'identità sessuale dell'autore trovi espressione sulla scena, prendendo in esame l'ambientazione, la rielaborazione del soggetto e il linguaggio musicale.

Bussotti ambientò la tragedia raciniana in un pianobar parigino denominato “Le Racine”, che dà il titolo all'opera. La scelta di spostare la vicenda dalla città di Trezene, dove si svolge la pièce originale, a Parigi si può far risalire al legame che il compositore instaurò con la capitale francese fin dal 1957, quando vi si trasferì per studiare con Max Deutsch. Il pianobar dell'opera acquisisce i contorni di una maison close, nella quale i vari personaggi incarnano ruoli ben precisi. Le fotografie della messinscena scaligera mostrano che il locale immaginato da Bussotti non fu affatto un luogo infimo, ma qualcosa di molto simile agli eleganti bordels parigini del primo Novecento raffigurati da Henri de Toulouse-Lautrec o alle loro varianti omosessuali frequentate da Marcel Proust.

Differentemente dalla pièce, nel bordello dell'opera Hippolyte è desiderato non solo dalla matrigna, ma da tutti gli uomini del locale. L'omoerotismo assume pertanto un ruolo di assoluta centralità tanto nella messinscena, attraverso l'esaltazione del corpo maschile, quanto nell'elaborazione del testo letterario e musicale. Il libretto estrapola i versi raciniani dal loro contesto originario e li affida ai personaggi del pianobar mediante nuove combinazioni, al fine di descrivere il piacere omosessuale e di sostituire progressivamente alla figura di Phèdre il personaggio di Racine, padre di Hippolyte nell'opera. Il trattamento musicale rivela poi la centralità della tematica omoerotica, attraverso i procedimenti dodecafonici che descrivono la distanza di Hippolyte dal genere femminile e, all'opposto, l'affinità che lo lega alla figura di Racine. Affidando la parte di Hippolyte al suo compagno Rocco Quaglia, Bussotti sovrappose inoltre alla finzione drammatica il proprio vissuto, ritagliandosi nell'atmosfera intima del pianobar lo spazio per un racconto autobiografico.


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Alessandro Mastropietro

Marcello Panni e il gruppo ‘Teatromusica': un percorso parallelo negli anni Settanta, tra sperimentazione e istituzionalità

La figura di Marcello Panni (Roma, 1940) è oggi nota soprattutto quale interprete storico del Novecento musicale in tutte le sue declinazioni. Gli esordi di Panni, ancorché affatto indagati, sono significativi anche sul piano compositivo e operativo, nello specifico campo del teatro musicale sperimentale: cooptato nel 1970 alla direzione musicale dell'ensemble interno a Nuova Consonanza, Panni ne fa nel 1972 – insieme a Francesco Carraro – un ensemble autonomo col nome programmatico ‘Teatromusica', intendendo così rivolgersi al già esistente e a nuove commissioni in un dominio, nevralgico per la neo-avanguardia, spaziante dalla ‘musica gestuale' a nuove configurazioni di teatro musicale generate dalla partecipazione paritaria di sperimentatori musicali, plastico-pittorici e teatrali.

‘Teatromusica', che di fatto funzionerà come ensemble strumentale allargato alla collaborazione di altre figure, verrà così ospitato in cartelloni allora di riferimento istituzionale (Biennale di Venezia, Festival Musica d'Oggi del Teatro alla Scala, Maggio Musicale Fiorentino etc.) e proporrà esso stesso articolate iniziative intorno al nuovo teatro musicale (due festival a Roma presso il Teatro delle Arti), portando in scena per la prima volta (in assoluto o in Italia) lavori di Francesco Pennisi e Dieter Schnebel, ospitando John Cage e Merce Cunningham, o allestendo Laborintus II di Berio e La Passion selon Sade di Bussotti.

I significativi apporti a questi spettacoli (il pittore-scenografo Gianfranco Baruchello, gli attori Carlo Cecchi e Cosimo Cinieri, lo stesso Francesco Pennisi quale pittore-scenografo della sua Sylvia Simplex…) sono confermati nei due lavori scenici dello stesso Panni: Klangfarbenspiel (1973), spettacolo astratto progettato insieme al pittore Piero Dorazio e al regista Mario Ricci, che attraverso mimi-figuranti con corde e pigmenti colorati concretizzava in tempo reale le contemporanee proiezioni di quadri di Dorazio; La partenza dell'Argonauta (1976), liberamente tratto da un testo di Savinio, realizzato insieme alla figura di spicco del ‘teatro-immagine' romano, Memé Perlini. In ambedue i casi, l'impianto inter-mediale conserva alcune caratteristiche tipiche di quell'area sperimentale, tra cui una relativa autonomia e non-preponderanza della componente musicale sulle altre componenti (e viceversa) e la scaturigine visiva dell'idea drammaturgica.

I due percorsi paralleli di Panni in quegli anni (compositivo e direttoriale-propositivo) verranno riletti pertanto, attraverso documenti musicali e scenico-visivi rintracciati in vari archivi (anche privati), sullo sfondo delle coeve esperienze soprattutto romane, sulle quali gli studi teatrali sono stati finora più prodighi (Bartolucci, Cappelletti, Quadri, De Marinis) di quelli musicologici (oltre a chi scrive, Daniela Tortora). L'attività di Teatromusica, peraltro, non si prolungherà oltre gli ultimi bagliori di quella stagione di sperimentazione intercodice (fine anni Settanta), mentre la produzione per il teatro musicale di Panni riprenderà negli anni Novanta su presupposti drammaturgico-musicali meno radicali e più sintetici.


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Costantino Mastroprimiano

Disambiguazione tra indicazioni dinamiche e agogica nella letteratura per pianoforte tra fine Settecento e metà Ottocento

Con la presente comunicazione si affronta un argomento che la “moderna" pratica di lettura e decodificazione della partitura ha omologato nella sua traduzione sulla tastiera.

A partire dalla fine del XVIII secolo, si assiste alla apparente indicazione duplicata di alcuni segni che modernamente sono accomunati come indicazioni dinamiche.

Un esame più attento di siffatte indicazioni, unitamente a tracce documentali rinvenibili anche in trattati, apre lo spiraglio per una nuova possibilità di lettura delle composizioni di questo periodo. Inoltre, la considerazione delle diverse tipologie di strumento e le differenti scuole didattiche (viennesi, inglesi, francesi) apportano elementi utili per affrontare la tematica della comunicazione, ponendo distinzioni legate all'area geografica, di formazione e provenienza, del compositore.

Lo stato attuale delle conoscenze sull'argomento: la tematica non è stata ancora pienamente esaminata e affrontata. Soltanto alcune Lectures di Malcom Bilson hanno accennato a questo, ma senza una vera centralità sull'argomento.

I contenuti principali della comunicazione e obiettivi della ricerca: esame di alcuni esempi di indicazioni testuali in composizioni pianistiche tra fine '700 e metà '800 utili a porre una differenziazione tra segni.

Gli apporti del contributo rispetto allo stato attuale delle conoscenze: recupero di prassi legate alla retorica e alla inflessione " verbale", perdute con la nuova scuola e didattica positivistica del pianoforte.


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Roberta Milanaccio

Il revival vivaldiano. Il valore dell'inautenticità nella riscoperta della musica del passato

Il presente studio ripercorre le fasi del revival vivaldiano a partire dalla fine dell'Ottocento, trattando più approfonditamente la fase iniziata nel secondo dopoguerra, il cui principale protagonista è stato Gian Francesco Malipiero. Particolare attenzione è data all'aspetto editoriale della riscoperta della musica di Vivaldi, alla restituzione del testo musicale e alla sua ricezione.

La pubblicazione delle Opere strumentali, ad opera dell'Istituto Vivaldi sotto la direzione artistica di Malipiero, ha avuto una parte fondamentale nella divulgazione della musica di Vivaldi. Tuttavia, negli anni Sessanta-Settanta, l'incremento e la diffusione degli studi sulla musica di Vivaldi, l'avvio delle edizioni critiche e le nuove prospettive aperte dall'interpretazione della musica antica hanno attirato un forte criticismo sull'edizione. Da allora, l'edizione Vivaldi/Malipiero è stata equiparata alle edizioni pubblicate prima della Seconda Guerra Mondiale, ossia prettamente arbitrarie nell'interpretazione del testo.

Già dalla fine degli anni Settanta, le critiche rivolte da Richard Taruskin alle più rigide forme di Werktreue ha messo in discussione quelle che erano considerate certezze nell'affrontare la musica antica sia dal punto di vista testuale che esecutivo. Basandosi anche sull'idea espressa da Daniel Leech-Wilkinson – ossia che, in ogni contesto di ricerca, si innesta una componente di invenzione e che tale invenzione riflette le personali convinzioni dell'editor, le sue preferenze, la sua formazione e i suoi gusti – il presente studio riconsidera l'approccio editoriale di Malipiero e l'inautenticità testuale come contributo positivo alla storia della ricerca di autenticità della prassi esecutiva.


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Nicola Montenz

L'ultimo mosaico? Die Liebe der Danae tra memoria musicale, letteraria e autorappresentazione

Die Liebe der Danae, benché rappresentata in prima assoluta a Salisburgo il 14 agosto del 1952 (e preceduta da una prova generale, il 16 agosto 1944, alla presenza dell'autore), non fu l'ultima opera composta da Richard Strauss: la seguì infatti Capriccio, rappresentata a Monaco nel 1942. Pure, dichiarazioni epistolari del compositore e testimonianze di amici e collaboratori lasciano intendere che proprio Die Liebe der Danae fosse il lavoro teatrale destinato a sancire l'addio alle scene di Strauss. Un'analisi dell'opera che ne ponga finalmente in luce la particolarissima articolazione à tableaux, e allo stesso tempo ne sveli i modelli più e meno evidenti, può contribuire a spiegare perché Die Liebe der Danae, negletta dalla critica e pressoché ignorata dagli interpreti, si ponga veramente come una summa conclusiva del teatro per musica occidentale. Le scene dell'opera, infatti, rispondono a un'esigenza che è intima e affettiva, prima ancora che drammaturgica, ed esse tradiscono modelli strutturali richiamati dal testo, dalla musica, o da più sottili reti allusive: riferimenti occulti o palesi al corpus drammatico wagneriano, al repertorio romantico tedesco e inoltre frequenti autocitazioni si fondono a molteplici suggestioni musicali e letterarie nella creazione di un'opera nuova e antica allo stesso tempo, esito estremo di un'epoca prossima al silenzio. Un testamento spirituale in musica, di cui non sono state colte, finora, tutte le tracce.

La comunicazione si propone dunque di evidenziarne sistematicamente i modelli, le modalità di riuso e di détournement creativo, attraverso un'analisi contrastiva del libretto, della musica e della tumultuosa corrispondenza tra Strauss e il suo librettista, Joseph Gregor; si potrà così fornire una sintesi esaustiva – a oggi affrontata solo in minima parte dalla critica, e in modo non sistematico – di un'opera tra le più affascinanti e misconosciute del repertorio novecentesco.


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Mafalda Nejmeddine

Analysis of sonatas for keyboard instruments of the second half of the eighteenth century: formal and stylistic characterization of Francisco Xavier Baptista's sonatas

The sonata has established itself as the dominant genre in the Portuguese repertory for keyboard instruments written in the second half of the eighteenth century. Francisco Xavier Baptista is the author with more musical production in this genre, accounting for a total of sixteen sonatas, twelve of which were published at the time under the title Dodeci Sonate, Variazioni, Minuetti per Cembalo. Studies addressing Portuguese compositions dating from the second half of the eighteenth century are scarce and are based on formal aspects within a global perspective. One of these works identifies Francisco Xavier Baptista as a composer in the transition between the early sonata and the classical sonata. The recent study of Portuguese sonatas from the period after Carlos Seixas elucidated the importance of the major corpus of sonatas composed by Francisco Xavier Baptista. The new biographical research on the composer has identified two sonatas of his authorship indicated by the name of Francisco Xavier Bachixa. In this study will be presented the formal and stylistic features of Francisco Xavier Baptista's sonatas based on the analysis carried out according to the Sonata Theory of Hepokoski & Darcy. This is a set of compositions that meets the Portuguese sonata model of that time in which the minuet is often used as a final movement of the two movements cycle and in this particular case, representative of a clear formal evolution.


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Nicolò Palazzetti

«Una posizione di centro». Béla Bartók e Roman Vlad nel dopoguerra italiano

Il compositore, musicologo, pianista e divulgatore Roman Vlad (1919-2013) ebbe un ruolo chiave nella storia della ricezione di Béla Bartók in Italia. Vlad partecipò alla vita musicale romana fin dal 1938, collaborando con Milloss e condividendo esperienze di ascolto con Casella, Petrassi, Maderna e Turchi. Le sue posizioni decentrate in merito all'avanguardia seriale, inoltre, gli permisero di dedicare notevole attenzione al “caso Bartók”. Questi interessi si riflettono nelle opere strumentali che Vlad compose tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. Infatti, il valore che Vlad diede al concetto di variazione e ai procedimenti combinatori ispirati alle matematiche, lo avvicinò molto al pensiero compositivo bartokiano.

Sulla scia dell'interesse accademico crescente tanto per la ricezione europea di Bartók quanto per la figura di Vlad, questo intervento intende far luce sulla presenza storica ed estetica del compositore ungherese nella vita artistica e culturale di Roman Vlad. Il punto di riferimento essenziale per la ricerca è costituito dal ricco materiale appartenente a Vlad conservato presso gli archivi della Fondazione “G. Cini” di Venezia.

Nel fondo Vlad sono conservati nove manoscritti e/o dattiloscritti (spesso inediti) dedicati a Bartók. Alcuni materiali risalgono agli anni Quaranta (come quelli per la conferenza commemorativa sul compositore ungherese svoltasi a Roma nel novembre 1946) e sono testimoni di un precoce interesse per la figura di Bartók in senso artistico e politico. Altri materiali più tardi testimoniano del continuo aggiornamento di Vlad sugli ultimi sviluppi della ricerca musicologica ungherese e statunitense su Bartók (si pensi alla conoscenza degli studi “seriali” di George Perle già negli anni Cinquanta o il riferimento all'axis theory di Lendvai negli anni Settanta). Nel fondo ci sono inoltre: le locandine di numerosi concerti pianistici; il materiale relativo alla puntata dedicata a Bartók per il ciclo televisivo Specchio Sonoro; il manoscritto e il dattiloscritto di un ampio lavoro dedicato alla musica contemporanea, che contiene parti rilevanti su Bartók. Infine, nel fondo, sono presenti abbozzi, materiali preparatori, manoscritti, partiture annotate e carteggi che si riferiscono alle opere musicali di Roman Vlad influenzate dal compositore ungherese: Divertimento per undici strumenti (1948); Sinfonia in tre tempi “all'antica” (1948); Meloritmi (musica per archi) (1955-59); Musica concertata “Sonetto a Orfeo” per arpa e orchestra (1957-58); “Tetratkys” per quartetto d'archi (1955/1984).

L'analisi delle parti più rilevanti di questa documentazione mi permetterà di chiarire la poetica della variazione in Roman Vlad, di ricostruire i suoi processi compositivi, di approfondire lo studio dell'influenza di Béla Bartók nel dopoguerra italiano.


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Chiara Pelliccia

La libraria musicale del cardinale Benedetto Pamphilj: nuovi documenti

Nell'interesse alla ricostruzione di antiche collezioni librarie e musicali, è stata oggetto di studi la famosa biblioteca appartenuta al cardinale Benedetto Pamphilj, ricca di volumi musicali manoscritti e a stampa e testimonianza di una delle maggiori stagioni del mecenatismo musicale romano. Generazioni di studiosi, non solo nell'interesse musicologico, si sono interrogate sulle sorti del fondo librario e musicale pamphiljano, nel tentativo di individuarne entità, caratteristiche, sopravvivenze e ipotizzarne ricostruzioni (Montalto, Annibaldi, Mercantini, solo per ricordare i più noti). La biblioteca un tempo appartenuta al cardinale Benedetto Pamphilj entrò a far parte, nel 1763, della Libraria Colonna, dopo annose liti giudiziarie tra gli eredi, condividendo poi le sorti del fondo colonnese fino alla dispersione entro il XIX secolo. La mia proposta, partendo da un excursus sui principali e più recenti percorsi degli studi sulla biblioteca Pamphilj, illustra nuovi documenti archivistici – tra i quali un inedito inventario di libri di musica – documenti che permettono di individuare con certezza una parte dei volumi musicali appartenuti al cardinale, di riconoscere i volumi ancora oggi esistenti e la loro localizzazione attuale, di proporre alcune riflessioni e ipotesi di approfondimento su contenuti e caratteristiche del fondo.


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Danilo Prefumo

“Rinnovando antichi effetti obbliati”. La scordatura nelle opere di Niccolò Paganini

La relazione analizza la pratica della scordatura e dell'iperaccordatura nelle opere per violino (e anche, occasionalmente, in un'opera per chitarra) del compositore genovese. Tale pratica viene considerata nello studio come parte integrante del recupero e dell'attualizzazione, da parte del violinista genovese, di quegli “antichi effetti obbliati” che già François-Joseph Fétis, nell'Ottocento, aveva acutamente individuato come elemento caratterizzante dell'arte violinistica paganiniana. Non esistono, al momento, studi sistematici su questo soggetto. La relazione sarà corredata da esempi musicali.


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Ciro Raimo

«Gli insegnamenti strumentistici negli attuali Conservatori di Musica: a chi le ragioni, a Saverio Mercadante o a Francesco Florimo?»

I molti esempi di artisti del passato storico del pianoforte indicano come, da sempre, ciò che resta di difficile attuazione nello studio di questo strumento è il rinnovarsi quotidiano di zelo e costanza. Viepiù in ragione del fatto che, sotto gli aspetti organologici ed estetici, «questo grand'istromento vien di continuo perfezionato così riguardo al suono come al maneggio» (Czerny). Mentre Liszt, fautore di una grande scuola pianistica, dichiarava di dedicare quattro ore al giorno esclusivamente alla tecnica pianistica.

Di qui – è noto – le persistenti investigazioni dei ricercatori di pedagogia pianistica, sempre parallele alla ininterrotta e rinnovata fattura dei pianoforti. Per cui, in relazione allo studio di mutate dinamiche, organologiche e anatomiche, e non ultima, all'affermazione del temperamento equabile dodecatonico, i didatti del pianoforte orientano le loro attenzioni verso quelle problematiche afferenti più direttamente alle ‘azioni della mano tastieristica'. Fino alle pur aspre contrapposizioni dottrinali che contrassegnano la didattica pianistica degli inizi del Novecento, con i cosiddetti ‘tradizionalisti' da un lato (tra cui quelli legati all'antica tecnica clavicembalistica), e, dall'altro, i supposti ‘innovatori' (Deppe, Steinhausen, Breithaupt, Matthay, ecc.), assertori della partecipazione del peso inerziale del braccio nel movimento delle dita.

Al presente, pare a chi scrive che i rinnovati Ordinamenti didattici praticati negli attuali Conservatori di Musica, sembrano allontanarsi da tali articolate problematiche inerenti ai repertori pianistici, rimuovendo per prima cosa l'esercizio costante e ragionato dello studio dello strumento-pianoforte. Laddove, discendendo dai fondamenti della pratica esecutiva, moderni lineamenti di pedagogia pianistica ci vengono dalla Fisica meccanica e da quella acustica, dalla Anatomia umana e dalla Fisiologia, da principi organologici ed economico-sociali, e, non da ultimo, dalla profondità del pensiero musicale latente in ogni composizione.

Oggi, in termini di studi pianistici, conformemente al principio di ottenere il massimo rendimento con il minimo sforzo, come è vero che non si vuole proporre ad uno studente di pianoforte, come unica risorsa, quella «di far studiare all'allievo migliaia d'Esercizi, nella speranza ch'egli tosto a tardi inceppasse nel modo corretto di suonare» (Matthay), è altresì vero che può valere il detto ‘stavamo meglio quando stavamo peggio'. Il pianoforte, infatti, per essere affrontato con scienza e coscienza, richiede molte ore giornaliere di studio. Decurtare tale quantità di ore, significa votarsi a sicuri fallimenti.


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Alessandro Restelli

Strumenti musicali all'Accademia di Belle Arti ‘Luigi Tadini' di Lovere

Nel 1829 nasce a Lovere (BG) l'Istituto di Belle Arti ‘Tadini', comprendente una scuola di disegno, una scuola di musica e una galleria d'arte pubblica. Le scuole e lo spazio museale sono tuttora parte integrante e attiva dell'Accademia di Belle Arti ‘Luigi Tadini' – denominazione attuale della medesima istituzione – la quale, inoltre, dal 1927 è sede di una stagione concertistica regolare. Il patrimonio conservato è particolarmente ricco. Annovera dipinti e sculture dal XIV al XIX secolo, con opere, tra gli altri, di Jacopo Bellini e Antonio Canova, insieme a porcellane di grandi manifatture europee, quali Napoli e Sevres, disegni, incisioni, reperti archeologici, minerali, fossili e animali imbalsamati. Il patrimonio librario include oltre 4.500 volumi, tra cui si ricordano circa trecento fra incunaboli e cinquecentine.

L'Accademia Tadini possiede anche un corpus piuttosto consistente di strumenti musicali, formatosi essenzialmente per soddisfare le esigenze dell'Istituto in merito alla didattica della musica e all'esecuzione dei concerti ospitati. Gli esemplari Tadini appartengono principalmente ai secoli XIX e XX, con un limitato nucleo di opere settecentesche. A titolo d'esempio di questo patrimonio strumentario si possono segnalare un violino di bottega cremonese del secondo Settecento, un contrabbasso attributo ai liutai milanesi Lanodlfi, una viola del 1847 di Johannes Riva Pictor, un pianoforte viennese Heitzmann dell'ultimo quarto del XIX secolo e un organo della ditta cremasca Tamburini realizzato nel 1913 appositamente per il salone dei concerti dell'Accademia. Tuttavia, risultando assente dai principali censimenti nazionali e internazionali dedicati ai musei e alle collezioni di settore, nonché dalla letteratura organologica più generale, questa raccolta è ancora oggi ben poco nota e ancor meno studiata. Si auspica perciò che ricerche e approfondimenti mirati possano accrescere in futuro le conoscenze relative alle opere conservate nella collezione, alle tappe della sua formazione e alle personalità coinvolte.


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Paola Ronchetti

Musica, spiritualità e architetture durante la pestilenza a Roma al tempo di papa Alessandro VII (1656 – 1658)

La ricerca inizia dalla ricerca delle fonti, trascrizione, studio ed esecuzione della Missa in angustia pestilentia, a sedici voci ripartite in quattro cori e organo, composta da Orazio Benevoli nel 1656. La messa, dedicata a papa Alessandro VII, venne eseguita nella basilica di San Pietro, a porte serrate, dalla Cappella Giulia della Sacrosanta Basilica Vaticana, di cui Benevoli, massimo esponente della grandiosità musicale barocca, era maestro dal 1646, dopo una carriera prestigiosa in varie chiese e basiliche romane. La composizione policorale, solenne ed austera, del celebre compositore romano, doveva impetrare a Dio la fine della pestilenza, che da Napoli si era diffusa nella città eterna dal rione di Trastevere e mieteva sempre più vittime. Il Papa, fin dai primi segni di diffusione della peste in città, aveva vietato di suonare gli organi, di fare processioni, di cantare le musiche per i vespri, come scrive Saverio Franchi nel suo saggio La musica a Roma al tempo della peste (2006) nel quale prende in esame le disposizioni ordinate dal Papa e fa un'analisi stilistico musicale della messa di Orazio Benevoli. Durante la peste il popolo si recava spontaneamente a chiedere la fine del contagio, o a pregare per grazia ricevuta, presso la chiesa di Santa Maria in Campitelli, dove era esposta l'antichissima immagine di Santa Maria in porticu, tanto che il popolo romano decise di fare voto per la costruzione di una nuova chiesa dove custodire l'immagine. Quando la pestilenza cessò il Papa organizzò una processione da lui presieduta, che dalla chiesa di Santa Maria all'Aracoeli giungesse infine alla chiesa di Santa Maria in Campitelli, dove venne adorata e ringraziata l'immagine santa, al canto dei cantori pontifici. La progettazione della nuova chiesa sarà affidata all'architetto e musicista Carlo Rainaldi, un protagonista della Roma barocca, che arricchì la costruzione della nuova chiesa di cinque cantorie grandi e otto cantorie piccole. Di Carlo Rainaldi restano composizioni sacre e profane. La relazione presenterà il Diario della Congregazione di Santa Maria in Campitelli, inedito manoscritto di P. Francesco Leonardi, che narra le cronache dal 1609 al 1661, fonte storica ancora inesplorata da un punto di vista musicale, di notevole importanza documentaria, che oltre a raccontare le vicende sanitarie della diffusione della peste in Roma, dell'importanza sempre crescente data dal popolo romano all'immagine della Madonna, della processione, del progetto della chiesa da parte dell'architetto Rainaldi, ci fornisce notizie preziose sulla presenza della musica nella vita spirituale e profana della città di Roma a quei tempi. La chiesa di Santa Maria in Campitelli diventa il centro di una situazione storico musicale architettonica, che ci consente di conoscere e comprendere meglio un periodo denso di avvenimenti per la vita di Roma ai tempi di papa Alessandro VII.


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Giacomo Sances

Una famiglia di musicisti all'Opera Pia. Nuove fonti documentarie su Francesco Feo e i Manna dall'Archivio Storico dell'Opera Pia del Purgatorio ad Arco di Napoli

Nella celebrativa e pomposa Napoli barocca neppure il triste tema della morte sfuggiva a quel processo di ostensione ed enfatizzazione del quotidiano che caratterizzava lo spirito di una città martoriata da dominazioni straniere, da problematiche politiche interne, da catastrofi naturali. La chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, ricettacolo dei morti della peste del 1656, non si sottraeva a questo macabro esibizionismo, anzi lo esaltava con le opere figurative di artisti del calibro di Dionisio Lazzari, Andrea Vaccaro, Luca Giordano ed altri ancora. Nello stesso luogo di culto anche l'arte musicale rientrava a pieno titolo in quell'estasi dei sensi che esplodeva durante le celebrazioni.

Fino ad oggi, solo alcuni storici hanno ricostruito una visione generale e ancora lacunosa dell'attività della congregazione del Purgatorio ad Arco. Poco è emerso, invece, dal punto di vista musicologico. Tuttavia un attento studio delle carte d'archivio dell'Opera Pia mi ha permesso di ricostruire l'attività musicale della chiesa, dalla sua fondazione – prima metà del Seicento – a tutto il Settecento. Nonostante l'assenza di una cappella musicale stabile, la musica di alto livello era una costante imprescindibile durante gli eventi festivi della congregazione. I primi maestri di cappella assiduamente coinvolti dalla congregazione rispondono ai nomi di Francesco Marinelli (ivi attivo dal 1663 al 1687), Donato Ricchezza (1688-1715) e Giuseppe Cristiano (1716-1720), ovvero personalità poco indagate nel panorama musicale napoletano del periodo barocco. Ma a partire dal 1721 le mansioni di compositore per la deputazione furono affidate a Francesco Feo che inaugurò il periodo di massimo splendore delle attività musicali presso il Purgatorio ad Arco. Feo, divenuto con atto ufficiale maestro “effettivo” solo nel 1731, collaborò per decenni con la congregazione e lasciò il testimone al nipote Gennaro Manna soltanto dopo ventinove anni di attività, nel 1750. Quest'ultimo, dopo altri ventinove anni, lo consegnò a sua volta al nipote Gaetano Manna. In questo modo si instaurò, de facto, il monopolio musicale della famiglia Feo-Manna, che già vantava, tra l'altro, le collaborazioni con il Purgatorio del basso Antonio Manna e dell'organista Giacinto Manna. Nonostante l'assenza di uno specifico fondo musica o di fonti musicali palesemente riconducibili al Purgatorio ad Arco, la chiesa in questione è il simbolo di un luogo di incontri artistici in cui l'aspetto “aristocratico” e quello “povero” della musica barocca napoletana convivevano allo stesso tempo: accanto ad una serie smisurata ed anonima di nomi di cantori e di religiosi “prestati” alla musica, tra i documenti inediti che intendo portare allo scoperto riaffiorano con prepotenza, oltre a quelli già citati, i nomi di compositori di fama quali Cristoforo Caresana, Giuseppe De Bottis, Filippo Coppola e Tommaso Pagano e dei violinisti Nicola Sole e Mattia del Rio. Emergono inoltre rapporti di vario tipo con eccellenze professionali come Domenico Sarro e Domenico Gizzi ed è molto probabile un legame della congregazione con Nicolò Grimaldi (Nicolini), Gaetano Majorano (Caffarelli) e Angelo Ragazzi.


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Cristina Scuderi

“Cantò spiegando un tesoro inesauribile di grazia”: cantanti verdiane e critica musicale nell'Italia postunitaria

La stampa musicale italiana offre un vivacissimo spaccato delle performances delle cantanti che hanno portato al successo molti dei lavori di Giuseppe Verdi nel clima di esaltazione patriottica seguito all'unità d'Italia.

Dalla Frezzolini alla Anastasi-Pozzoni passando per la Stolz, la Waldmann o la Pasqua, tutte le più grandi interpreti verdiane fecero scatenare la critica: c'è chi dalle colonne de La Perseveranza o de Il Teatro Illustrato provava a cimentarsi nel difficile compito di descriverne la vocalità, chi sulla Gazzetta musicale di Milano si soffermava sugli immancabili (e temuti) paragoni con colleghe di altrettanta chiara fama, o chi su Il Trovatore sembrava perdere la testa per la propria beniamina, come nel caso di Romilda Pantaleoni, prima Desdemona verdiana, assimilata dalla stampa ad una novella Eleonora Duse ed osannata in seguito ad un decisivo articolo di Carlo D'Ormeville sulla Gazzetta dei Teatri.

Critici soggiogati dalle interpreti dunque, ma anche pronti a elargire loro consigli direttamente dalle colonne dei propri periodici o a intavolare con loro un immaginario discorso.

Articoli lucidi e rivelatori della vera essenza di un'interpretazione si fanno strada tra un'immancabile messe di scritti verbosi, ingombri di un lessico tecnicamente astratto (la diva è genericamente ‘insuperabile', ‘somma', ‘egregia', ‘impareggiabile' o ‘divina'), carichi di espressioni a volte infelici o ambigue, o di una terminologia standard dalla quale ben poco si ricava per ricostruire oggi una voce o un temperamento.

Sullo sfondo, la figura vigile di Giuseppe Verdi, esigente e accorto selezionatore delle protagoniste, attento – checché se ne dica – a seguire la propria fortuna e quella delle sue interpreti sulla carta stampata.


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Gabriele Sfarra

Gian Francesco Malipiero compositore sistematico. Procedimenti compositivi e strutture formali nelle opere strumentali degli anni 1956-1964

La maggior parte dei contributi riguardanti l'opera di Gian Francesco Malipiero è caratterizzata da un approccio musicologico di impostazione antiquata, che spesso si limita ad indagare le ragioni poetiche ed estetiche del suo far musica tralasciando un'analisi approfondita della partitura. Particolarmente trascurate appaiono le composizioni strumentali della “terza maniera”, il periodo che va dal 1955 alla morte del compositore, avvenuta nel 1973, nonostante tra queste si annoverino alcune delle sue composizioni più note. Di fronte a tali lavori, la critica si è incagliata in questioni terminologiche e luoghi comuni, arrivando a definirli capricciosi, antisistematici, ai limiti dell'informalità (e quindi, sottinteso, anacronistici e monotoni).

Un approccio analitico aggiornato, che utilizza gli strumenti forniti dalla set theory per mettere in relazione tra loro gli elementi parziali che compongono il discorso musicale, permette invece di gettare nuova luce sulle composizioni malipieriane di questo periodo. L'analisi dei procedimenti compositivi di tre opere che rappresentano una sorta di percorso evolutivo - I Dialogo con Manuel de Falla (in memoria) per piccola orchestra, 1956; IV Dialogo per cinque strumenti a perdifiato, 1956; Quartetto per Elisabetta, 1964 - rivela un Malipiero sistematico, che inventa ed applica in maniera estremamente coerente dei precisi procedimenti di creazione e trasformazione del materiale sonoro. Tali tecniche non sono generalizzabili in un ‘metodo di comporre' perché vengono ideate ad hoc per ogni composizione, cosa che genera dei percorsi formali molto originali. I personalissimi processi compositivi impiegati vanno dall'utilizzo di una serie-matrice per la creazione e la trasformazione del materiale motivico, alle operazioni di strutturazione e controllo dei campi armonici e delle trasformazioni della materia sonora che sfruttano i principi dell'espansione intervallare, delle invarianti, degli insiemi di classi di altezze ricorrenti, degli insiemi contigui.

I luoghi comuni del Malipiero capriccioso e antisistematico, in cui la critica finora si è rifugiata, vengono a cadere. Per la prima volta si presenta la possibilità di comprendere realmente e dall'interno i meccanismi che regolano il ‘linguaggio cromatico' dell'ultimo Malipiero e la gestione della materia sonora e delle strutture formali, sottraendo il compositore, forse, all'isolamento in cui lui stesso e la critica hanno voluto confinarlo.


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Laura Toffetti

Musica, gesto e declamazione fra Seicento e Settecento. La percezione del ritmo in un'epoca precedente all'invenzione del metronomo: durate dei suoni o distanze tra di loro?

La percezione del ritmo in un'epoca precedente all'invenzione del metronomo: durate dei suoni o distanze tra di loro?

L'intervento intende presentare i risultati di una ricerca sui repertori strumentali sei-settecenteschi delle scuole musicali dell'Italia settentrionale, condotta nella duplice veste di studiosa e di violinista barocca. Al centro della ricerca è stato posto il concetto di percezione del ritmo come tempo della recitazione, poiché, come ricordava Girolamo Frescobaldi: “la perfettione di sonare principalmente consiste nell'intendere i tempi.”

L'indagine si basa sull'analisi di parametri culturali diversi, appartenenti non solo agli ambiti musicologico e teorico, ma anche a quelli della poesia, del teatro e, in modo più generale, della declamazione: in un'epoca precedente all'invenzione del metronomo e nella quale il pendolo non era di uso comune, la musica, ossia l'arte del movimento, deve la sua esistenza al solo svolgersi temporale ed è generata unicamente dal principio della pulsazione, intesa come scandirsi di eventi e non come unità di misura. Concetti come la durata dei suoni contrapposta alla loro reciproca distanza e la lettura intonata o ‘recitar cantando' come base per decifrare una cantilena si rivelano centrali nella composizione musicale più delle odierne misure regolate da durate precise e valori assoluti.

Il primo obiettivo di questo lavoro è l'interpretazione dei simboli musicali in uso a partire dal primo ‘600, condotto grazie allo studio delle numerose tavole di ornamentazione e diminuzione tardo-rinascimentali e barocche, alle note introduttive di edizioni musicali e ad alcune importanti opere didattiche. Una proposta di esecuzione di alcune formule ritmiche e ornamentali ritenute paradigmatiche illustrata dal vivo chiuderà questa prima sezione.

La successiva fase dell'indagine si concentra sullo studio della funzione e dell'evoluzione di alcuni termini musicali specifici, quali ‘battuta', ‘misura' o ‘figura', come testimoni dell'analogia fra il linguaggio musicale, le regole della retorica e i parametri della prosodia.

Posto che la notazione barocca non fornisce le precisioni necessarie ad una corretta esecuzione, poiché è povera di quelle indicazioni interpretative che sono invece frequenti nelle scritture musicali più moderne – sono rare le informazioni relative alle articolazioni o al fraseggio, spesso totalmente assenti quelle dinamiche o agogiche – è nelle fonti teoriche che si trovano le chiavi necessarie alla comprensione e all'esecuzione del testo musicale. Dagli scritti di compositori come Girolamo Frescobaldi e Francesco Rognoni, o di teorici d'oltralpe come Athanasius Kircher o Joachim Burmeister si evince che la composizione musicale barocca è fondata su nuclei linguistici precisi, diversi per natura e funzione da quelli ai quali siamo oggi abituati. Questi elementi – come la figura melodica ascendente o discendente, lenta o rapida, breve o estesa e la disposizione degli intervalli – possono essere paragonati a strutture semantiche minime che, giustapposte nel tempo, costruiscono il discorso musicale.

All'odierno solfeggiare si dovrà quindi sostituire il dire piano, forte, veloce, lento, l'interruzione brusca o preparata, il pronunciare, declamare, sillabare o sussurrare, il porre accenti, il respirare, l'attendere o l'eseguire in maniera concitata. È dunque il carattere incompleto della notazione antica che induce il musicista barocco ad affrontare il testo con un approccio peculiare, e paradossalmente moderno, tra lettura, interpretazione e improvvisazione.


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Marina Toffetti

Per uno statuto della ricostruzione della polifonia incompleta

Chi studia il repertorio vocale e strumentale rinascimentale e barocco sa che migliaia di composizioni, giunteci incomplete, non solo non vengono eseguite da secoli, ma spesso sono trascurate dagli stessi studiosi, tradizionalmente inclini a basare la loro concezione della storia della musica sullo studio delle sole composizioni che ci sono giunte complete. Se potessimo riascoltare le composizioni che ci sono giunte incomplete perché prive di una o più parti vocali o strumentali, probabilmente muterebbe la nostra visione di molti periodi della storia della musica. Tuttavia, se venissero eseguite allo stato incompleto, molte di queste composizioni risulterebbero incomprensibili o di scarso interesse, e in molti casi la loro esecuzione risulterebbe impossibile o molto difficile. Solo la proposta di ipotesi ricostruttive delle parti mancanti potrà restituire questo enorme repertorio al contesto vivo della fruizione.

Sebbene siano in aumento i progetti di ricerca dedicati alla restituzione della polifonia incompleta e le edizioni critiche di musiche sottoposte alla ricostruzione di una o più parti mancanti (e chi propone questo intervento si è cimentato in passato in alcune imprese di questo genere, proponendo il ripristino di alcune composizioni di Ingegneri, Marenzio, Ardemanio, Frescobaldi), siamo ben lungi dal poter affermare che la recente pratica della ricostruzione della musica si sia dotata di uno statuto teorico che meriti di definirsi tale.

Alla musicologia manca una riflessione sull'argomento che inquadri in una griglia teorica i problemi della ricostruzione della polifonia lacunosa così come in passato, grazie all'apporto di figure della statura di Cesare Brandi, Giovanni Urbani e Cesare Settis, è stato inquadrato il problema del restauro nell'ambito delle arti figurative: come disciplina non più meramente precettistica, ma riferita alla natura estetica dell'arte.

Se è vero che la riflessione sul ripristino dei monumenti musicali può utilmente giovarsi di quella sviluppata in ambito storico-artistico, che vanta una storia plurisecolare e un'ampia letteratura critica, è altrettanto opportuno che essa elabori concetti più pertinenti al proprio contesto alla luce delle specificità del proprio oggetto artistico.

Il presente contributo si propone da un lato di valutare lo stato dell'arte, proponendo un provvisorio censimento dei tentativi di ricostruzione sinora condotti nei più diversi ambiti della storia della musica, dall'altro di impostare quella riflessione teorica ampia e complessiva sull'argomento dalla quale una prassi ricostruttiva scientificamente fondata non può prescindere, tenendo conto anche dell'apporto che le nuove tecnologie possono fornire rendendo riconoscibili le porzioni ricostruite di una composizione nella fase dell'ascolto.


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Luigi Verdi

Parente di Giuseppe Verdi? No, di Settimio Battaglia (1815-1891). Nel 200° anniversario della nascita del compositore romano

Settimio Battaglia (Roma 1815-1891) fu un protagonista della vita musicale romana dell'Ottocento ma uno studio approfondito sulla sua figura e la sua opera non è mai stato compiuto. Figlio di un fabbro del rione Monti, rimase orfano di madre all'età di 9 anni e fu collocato nell'ospizio di San Michele, dedicandosi presto allo studio della composizione avendo come maestri Giuseppe Baini e Valentino Fioravanti. Nel 1836 ottenne il diploma di compositore e organista all'Accademia di Santa Cecilia e venne nominato Maestro di cappella in San Lorenzo in Damaso, ove rimase fino al 1855 quando divenne organista della Basilica Santa Maria Maggiore e quindi ivi maestro di cappella dal 1862 fino alla morte (1891). Nel 1843 si sposò con Vittoria Brogi, una sua lontana cugina, dalla quale ebbe nove figli, tra cui Giuseppina, madre di mia nonna Caterina Terenzi Verdi.

Compositore prolifico, di lui ci sono pervenute non meno di 300 composizioni, per la maggior parte di musica sacra, prevalentemente conservate all'Archivio Liberiano, ma anche in molte altri archivi (Accademia Santa Cecilia, Laterano, Santa Maria in Trastevere, Congregazione dell'Oratorio, Duomo di Tivoli). Di particolare rilievo l'oratorio Giaele, eseguito a San Girolamo della Carità nel 1850 (conservato all'Archivio di Stato di Roma). Di estremo interesse, ancorché assai poco conosciuta, è la sua attività come direttore della Scuola israelitica siciliana (1845-1855), per la quale compose una vasta mole di lavori su testi della liturgia ebraica, conservati oggi alla Biblioteca nazionale di Israele e di cui è in corso la catalogazione. Tra gli innumerevoli eventi cui partecipò come compositore, si ricordano la Gran festa notturna per l'erezione del monumento a Pio IX in Piazza del Popolo (1847), l'inaugurazione della Scola cantorum di San Salvatore in Lauro (1868), la Cantata in onore del Principe della musica Giovanni Pierluigi da Palestrina al Palazzo Doria Pamphilj (1880) conservata oggi alla Biblioteca dell'Accademia Filarmonica Romana. Il suo stile musicale formatosi da una profonda conoscenza del contrappunto, era caratterizzato da una grande fluidità melodica talvolta accogliendo le convenzioni della musica teatrale, secondo il gusto e la sensibilità dell'epoca. Tra i suoi allievi si segnalano Augusto Moriconi (1844-1907), Filippo Sangiorgi (1831-1901) e Venceslao Persichini (1827-1897). «Il Battaglia era di carattere pacifico, dotato di educazione fina, di maniere piacevoli e oltremodo cortesi. Come artista e come maestro era dotto e abile; come uomo scevro d'invidia per il successo dei colleghi e protettore dei giovani; come compositore inspirato e fecondo d'idee» (Carlo Mannucci, L'arte musicale a Roma. 1881, Cecchini, Roma).