Lucca, Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini”

20-22 ottobre 2017

Informazioni logistico-ricettive

Locandina

Dépliant

Programma e abstract

Venerdì 20 ottobre, ore 9:30

 

Auditorium 

Indirizzi di saluto 

  • Paolo Cattani, presidente dell’Istituto Superiore di Studi Musicali
  • Fabrizio Papi, direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali
  • Francesco Passadore, presidente della Società Italiana di Musicologia

 

Venerdì 20 ottobre, ore 10:00

 

Auditorium – I sessione – presiede Paola Besutti

  • Frédéric Degroote, Le Primo libro di madrigali de Jean Desquesnes (Anvers, Phalèse, 1594): Première tentative d’analyse d’un certain madrigal des anciens Pays-Bas méridionaux. Abstract.
  • Giulia Riili, Madrigalisti «a bottega»: Paolo Caracciolo, discepolo di Pietro Vinci. Abstract.
  • Carlos Gutiérrez Cajaraville, Sensing sound, hearing images: Giordano Bruno, empathy, and the creation of sound images in the Renaissance. Abstract. 

pausa caffé 

  • Marco Giuliani, Le immagini musicali nei frontespizi delle edizioni collettive di polifonia/monodia vocale in italiano. Abstract.
  • Giuseppe Fiorentino, «Sonare sopra tenori»: l’improvvisazione strumentale nel Rinascimento tra Italia e Spagna. Abstract.

 

Aula 115  II sessione – presiede Gabriella Biagi Ravenni

  • Luciano Rossi, Le Ultime Sette Parole di Agonia di Nostro Signore Gesù Cristo. Riflessioni e indagini alla luce di nuove testimonianze. Abstract.
  • Tarcisio Balbo, Giovanni Paolo di Mercurio, librettista, libraio, poligrafo e bibliotecario nella Sicilia del Settecento. Abstract.

pausa caffé 

  • Giovanni Bianco, Paolo Benedetto Bellinzani,
per un contributo alla catalogazione dei manoscritti autografi e alla ricostruzione biografica. Abstract.
  • Federico Gon, «Fu compatita ma non fece quell’incontro che si credeva»: la prima fortuna del Matrimonio segreto in Italia (1793-1800). Abstract.

 

Aula 117  III sessione – presiede Licia Sirch 

  • Irene Guadamuro García, La editorial Ricordi y su presencia en España: la administración de los derechos sobre sus obras a través de la correspondencia con sus representantes. Abstract.
  • Ana Maria Flori Lopez, La ópera italiana y su repercusión en el àmbito social de la ciudad de Alicante entre los años 1850 y 1900. Abstract.

pausa caffé 

  • Marta Mancini, Virginia Mariani, una compositrice vissuta fra Ottocento e Novecento. La vita e l’opera. Abstract.
  • Alessandro Restelli, Strumenti musicali antichi come complementi d’arredo: il caso di Milano fra Ottocento e Novecento. Abstract.

 

 

Venerdì 20 ottobre, ore 15:00

 

Auditorium  IV sessione – presiede Mario Baroni 

  • Evan Moskowitz, Surrealism, Myth, and Ritual in Giacinto Scelsi’s Khoom (1962). Abstract.
  • Rossella Gaglione, Prodromi per una musicologia satirica? Un omaggio a Giovanni Morelli. Abstract.
  • Monika Prusak, Nella palude dell’avanguardia: il senso musicale del secondo Nonsense e del Sesto Non-Senso di Goffredo Petrassi. Abstract.

pausa caffé 

  • Alessandro Giovannucci, Paesaggio sonoro: Luigi Nono come pioniere. Abstract.
  • Michael Lupo, Hearing Resonances in Luigi Nono’s Risonanze erranti. Liederzyklus a Massimo Cacciari. Abstract.
  • Katiuscia Manetta, Il canto popolare nel Dissoluto assolto di Azio Corghi: simbologie e significati. Abstract.

 

Aula 115 – V sessione – presiede Roberto Illiano 

  • Giovanna Barbati – Francesco Maschio, Un’ipotesi di ri-costruzione: un percorso formativo per il violoncellista improvvisatore al basso continuo. Abstract.
  • Benedetto Cipriani, La didattica del partimento romano e le Regole per ben [son]are | il cembalo [...] di Alessandro Scarlatti (D-Hs M A/251). Abstract.
  • Nicoleta Paraschivescu, The Newly Discovered Second Book of Partimenti by Giovanni Paisiello. Abstract. 

pausa caffé 

  • Giacomo Franchi, Le Sei sonate per cembalo Op. 6 [bis] di Giovanni Marco Rutini: una nuova lettura. Abstract.
  • Tinaya Iron, Giovanni Battista Sammartini as a Springboard for Franz Joseph Haydn: Sammartini’s Symphony in F Major (J-C 32) and Joseph Haydn’s Symphony in D Major (Hob. I:1). Abstract.
  • Ana Martínez Hernández, The biographies of Luigi Boccherini: A comparative analysis. Abstract.

 

Aula 117  VI sessione – presiede Francesca Seller

  • Francesco Esposito, «Je fais ici de très brillantes affaires»: una lettera inedita di Sigismund Thalberg dal Brasile e la ricostruzione della sua attività iberoamericana. Abstract.
  • Barbara Gentili, La vocalità italiana diventa ‘moderna’. Abstract.
  • Alberto Annarilli, Opere incompiute: Le Duc d’Albe di Gaetano Donizetti. Il primo tentativo di completamento da parte di Matteo Salvi e del team di Giovannina Lucca (1882). Abstract. 

pausa caffé 

  • Carolin Krahn, «[…] wie das eben durch ganz Italien Sitte ist!». The sophistication of applause, or what Johann Friedrich Rochlitz wanted German audiences to learn from their Italian fellows. Abstract.
  • Víctor Sánchez, Zarzuela come operetta alla italiana. L’incontro di Nietzsche con La Gran Vía a Torino. Abstract.
  • Andrea García Torres, Democratizing Italian opera: parody as an alternative way to reception in Madrid popular theatre during the late 19th century. Abstract.


 

Sabato 21 ottobre, ore 9:30

 

Auditorium  VII sessione – presiede Paologiovanni Maione 

Paisiello 1816-2016. Il post anniversario

  • Sarah M. Iacono, Tra sovrani, prelati e patrizi: su alcune fonti paisielliane a Lecce. Abstract.
  • Roberto Scoccimarro, I manoscritti paisielliani provenienti dal fondo dell’Opernarchiv e dalla Königliche Privat-Musikaliensammlung di Dresda: note sulla storia della ricezione della musica di Paisiello alla corte sassone. Abstract.
  • Lucio Tufano, Paisiello e Mozart: sulla tradizione della Disfatta di DarioAbstract.

pausa caffè 

  • Attilio Cantore, «In ozio alcun non stia / La nostra batteria / Facciam ben risuonar». Ricognizione sugli aspetti massonici de Gli Zingari in fiera di Paisiello. Abstract.
  • Aurèlia Pessarrodona, Il ritorno di Figaro in patria: recezione e adattamenti di Il barbiere di Siviglia di Paisiello alle scene spagnole tra la fine del Settecento e inizio dell’Ottocento. Abstract.
  • Lorenzo Mattei, Paisiello in scena: aspetti di drammaturgia musicale. Abstract.

 

Aula 115  VIII sessione – presiede  Sara Matteucci

  • Donatella Melini, Gli strumenti musicali raffigurati nella pala Madonna dell’Umiltà e angeli musicanti (1450-1455) di Benedetto Bembo: un interessante caso di prime attestazioni visive. Abstract.
  • Valentina Trovato, Riscoperta della musica antica a Milano: il caso di Giacomo Carissimi all’Angelicum negli anni Quaranta e Cinquanta. Abstract.
  • Nicola Lucarelli, Tecnica flautistica e stile galante nel Versuch di Johann Joachim Quantz. Abstract.

pausa caffé 

  • Alessandro Mastropietro, Questioni compositive, simbologiche e analitiche nel ciclo Descrizione del corpo di Domenico Guaccero. Abstract.
  • Brigida Migliore, Musica contemporanea e oralità araba: la tecnica dell’“innesto” musicale nell’opera di Zad Moultaka. Abstract.
  • Philip Shields, Malipiero – Maverick or Magician of the Manuscript – From Straussian Stories to Debussian Descriptions. Abstract.

 

Aula 117 – IX sessione – presiede Teresa Maria Gialdroni

  • Rosanna Giarraffa, Giovanni Maria Trabaci, Vespri a 5 voci (1634). Abstract.
  • Antonio Dell’Olio – Maurizio Rea, Aspetti stilistici e strutturali della produzione mottettistica di Gaetano Veneziano (1656ca. - 1716). Abstract.
  • Christine Suzanne Getz, The Last Years of the Tini Press. Abstract. 

pausa caffé 

  • Luca Ambrosio, Prologhi, intermedi e balli nella produzione melodrammatica romana post-rospigliosiana (1668-1689): novità, aggiornamenti e linee di tendenza. Abstract.
  • Domenico Prebenna, L’Annibale in Capua di Pietro Andrea Ziani: prolegomeni per l’edizione critica. Abstract.
  • Sergio Monferrini, La rappresentazione de La Floridea a Novara nel 1674. Abstract.

 

 

Sabato 21 ottobre

 

Auditorium

 

ore 15:30

Assemblea annuale dei soci della SIdM

 

ore 17:00

Presentazione della rivista musicologica “Codice 602” dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini”

 

ore 18:30

Concerto

 

Domenica 22 ottobre, ore 9:30

 

Auditorium  X sessione – presiede Agostino Ziino

  • Chiara Bertoglio, Riformare la Chiesa partendo dalla musica: due sacerdoti del Cinquecento nel clima pretridentino. Abstract.
  • Michelangelo Gabbrielli, I canoni di più sorti fatti sopra dei canti fermi del primo tuono di Fulgenzio Valesi. Abstract.
  • Francesco Rocco Rossi, Franchino Gaffurio editore: le pratiche mensurali all’interno dei quattro Libroni del Duomo di Milano. Abstract.

pausa caffé 

  • Marina Toffetti, L’Oratione delle lodi di Santa Cecilia (Milano, Agostino Tradate, 1599). Abstract. 
  • Luigi Collarile, Legrenzi sacro. Intorno ad alcuni manoscritti dimenticati. Abstract.
  • Paolo Cavallo, Le Messe brevi di Giovanni Bononcini (1688) e di Giovanni Ambrogio Bissone (1722, 1726). Proposte di lavoro per un confronto intertestuale. Abstract.

 

Aula 115  XI sessione – presiede Antonio Caroccia

  • Daniele Palma, «Alles zergeht, wie Dunst und Traum». Lotte Lehmann interprete della Marschallin. Abstract.
  • Luigi Verdi, L’influenza della musica russa sui compositori italiani del primo Novecento. Abstract.
  • Alberto Iesuè, Musica e musicisti nel “deprecato” ventennio. Abstract.

pausa caffé 

  • Armando Ianniello, Musica di scena, musica per film e opera lirica: il caso della Napoli milionaria di Eduardo de Filippo con musiche di Nino Rota. Abstract.
  • Susanna Avanzini, Il sogno del soldato. Abstract.
  • Maica Tassone, Resilienze nei territori a rischio culturale: una prospettiva musicologica. Abstract.

 

 

Comitato convegni SIdM: Antonio Caroccia (responsabile), Paola Besutti, Teresa Maria Gialdroni, Paologiovanni Maione, Francesca Seller, Licia Sirch, Agostino Ziino

 


Abstract 

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Luca Ambrosio

Prologhi, intermedi e balli nella produzione melodrammatica romana post-rospigliosiana (1668-1689): novità, aggiornamenti e linee di tendenza

Dopo la morte di Clemente IX, l’esperienza del dramma per musica nella Roma del Seicento conosce la breve esperienza del Tordinona (1671-4) e l’estrema frammentazione produttiva degli anni ‘80, in cui notabili come il Contestabile Colonna, il cardinale Benedetto Pamphilj, lo spendaccione Flavio Orsini e Pompeo Capranica gareggiano per offrire alla cittadinanza una teoria di spettacoli che attendono ancora di ricevere dalla comunità scientifica la stessa attenzione da tempo tributata alle stagioni barberiniane. La mappatura integrale della cinquantina di fonti, librettistiche e/o musicali, a tutt’oggi recensite, di cui il presente contributo è diretta emanazione, consente, tra le varie possibilità, l’analisi e il confronto dei numerosi momenti spettacolari accessori di cui le opere capitoline, a differenza di quanto accada sulle rive dell’Adria, continuano a dotarsi, corredando non solo i titoli allestiti presso il teatro pubblico (studiati, a suo tempo, da Jander e Gianturco), ma anche la pletora di commedie e «favole drammatiche musicali» destinate ad allietare la piccola nobiltà capitolina nelle occasioni di villeggiatura, così come i pochi, ma significativi, ess. di «dramma musicale burlesco» e addirittura qualche opera pastorale. Diverse sono le finalità sottese a tali inserimenti, dipendenti principalmente dalla natura del dramma e dal contesto esecutivo: a differenza delle immaginifiche introduzioni approntate per il Tordinona, ad es., nelle produzioni cortesi degli anni ‘80 si nota un proliferare di prologhi encomiastico-celebrativi a volte utilissimi per risalire a dedicatari ed interpreti della serata (è il caso del prologo allegato alla partitura di Tutto il mal non vien per nuocere custodita a Montecassino, a tutt’oggi quasi ignorato dalla letteratura). Gli intermedi (specie il 2°) costituiscono, com’è noto, il terreno ideale per lo svolgersi dell’espressione ridicola (a certe condizioni, infatti, si possono accostare ad essi anche le scene buffe in chiusura d’atto), ma l’inclinazione al comico grossolano e, a tratti, quasi scurrile, riconosciuta tradizionalmente al repertorio capitolino, conosce, alla luce dell’indagine, più sfumature di quel che si pensi, a prescindere poi che tale intervento sia posto in diretta correlazione, o meno, con i balli conclusivi. Riguardo quest’ultimi, infine, le partiture allo studio sono particolarmente prodighe di informazioni, consentendo una ricostruzione del repertorio di danze teatrali in voga che, almeno fino all’anno 1681, può dirsi insolitamente dettagliato ed esaustivo.

 


 

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Alberto Annarilli

Opere incompiute: Le Duc d’Albe di Gaetano Donizetti. Il primo tentativo di completamento da parte di Matteo Salvi e del team di Giovannina Lucca (1882)

Con il mio intervento intendo occuparmi del lavoro di completamento di una partitura operistica, e precisamente quello operato da Matteo Salvi su Le Duc d’Albe di Gaetano Donizetti. Nel 2011 il compositore Giorgio Battistelli ha curato un’ultima importante versione di quest’opera, edita da Casa Ricordi e andata in scena nel 2012 alla Staastoper di Ghent, (su questo argomento chi scrive ha discusso la tesi di laurea presso l’Università di Tor Vergata con il prof. Giorgio Sanguinetti dal titolo Opere Incompiute. Le Duc d’Albe di Donizetti-Battistelli). In questo lavoro, invece, il mio scopo è quello di affrontare i problemi legati al completamento di questa opera incompiuta di Donizetti da parte di un suo allievo, Matteo Salvi (1816-1887) mettendo un focus sia sul contesto storico e culturale nel quale questa operazione è stata condotta, sia sul rapporto con la sua editrice, l’allora grande rivale di Casa Ricordi, Giovannina Lucca. Tenendo presente la partitura si tenterà di comprendere quali siano stati i passaggi che hanno portato Matteo Salvi, Angelo Zanardini e gli altri del gruppo di lavoro di Giovannina Lucca ad andare avanti nel lavoro, coronato dalla messa in scena del 1882: dalla riduzione del libretto e dalla sua traduzione, all’uso del materiale originario di Donizetti usato da Salvi, dal contesto dell’opera italiana agli inizi degli anni ‘80 dell’Ottocento, alla reazione di Giuseppe Verdi davanti all’utilizzo dello stesso libretto dei suoi Vespri Siciliani (scoprendo così la trovata di Scribe di ‘riutilizzare’ un suo libretto che non era alla fine andato in scena nel 1839, quello appunto originale de Le Duc d’Albe). Per la mia indagine ho tenuto conto della bibliografia esistente sulla musica incompiuta, recentemente arricchita dal lavoro di Richard Kramer Unfinished Music (New York, Oxford University Press, 2008), e da quello di Roger Parker Remaking the Song (University of California Press, 2006).

 


 

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Susanna Avanzini

Il sogno del soldato

Nel 2006, nell’ambito del 63° Festival del Cinema di Venezia, Kenneth Branagh presenta The Magic Flute, una trasposizione filmica della Zauberflöte mozartiana in traduzione inglese, ambientata durante la Prima Guerra Mondiale. Come il regista stesso ha spiegato, la traduzione del libretto lo rende generalmente più comprensibile; in tal modo il film è fruibile non solo per i conoscitori o amanti dell’opera, ma anche per i neofiti o i non esperti, secondo le intenzioni originali di Mozart. Le immagini che rappresentano l’eterna lotta tra il bene e il male nella trasposizione del Singspiel mozartiano si prestano a mio parere a più livelli d’interpretazione. Sarastro e la Regina della Notte guidano due armate contrapposte; Papageno alleva piccioni, “tester” della presenza di gas nervino e cerca la sua Papagena tuffandosi in un’enorme bocca rossa sospesa nell’aria, che ricorda un quadro di Magritte. Nel film, pacifista, Sarastro accoglie profughi in un ospedale da campo e canta Spirits of Our Fathers in un cimitero di guerra; Pamina sembra invece avere un ruolo secondario. Il mio intervento è incentrato sulla prima aria di Tamino trasformata in un sogno a occhi aperti per un soldato in trincea. Dopo averlo salvato da un serpente di gas nervino, le tre dame, ora crocerossine, gli mostrano il ritratto di Pamina: l’immagine inizia a danzare davanti ai suoi occhi trasformandosi come per magia in un sogno in bianco e nero. La trincea diventa una sala da ballo, dove coppie in abito da sera danzano una quadriglia. Pamina e Tamino si guardano prima da lontano, poi su una pausa generale, sulla quale il “battito” che domina quest’aria s’interrompe, si incontrano, come senza fiato. Il movimento riprende poi, ma al rallentatore; la macchina si sofferma sul movimento dei piedi della coppia. La scena di danza del film di Branagh è interessante soprattutto per la trasposizione inglese e per i molteplici riferimenti colti in essa nascosti, che cercherò di svelare in un’approfondita analisi musicale-audiovisiva. Una delle scene visualizza i tre ossimori “this happy sadness, this blinding dark, this gauzy madness” che “traducono” il testo tedesco originale “an diesen heißen Busen drücken”. La prosodia di Fry contraddice l’apparente semplicità delle immagini filmiche: per esempio gauzy è sinonimo di sheer; Sheer madness è la traduzione di Heller Wahn, la Lucida follia di un film di von Trotta del 1983. Oltre a un possibile riferimento alla guerra, nel sogno di Tamino si potrebbe individuare una citazione di quello in bianco e nero della protagonista di Heller Wahn. Nel film di Branagh Tamino riconosce l’amore solo guardandolo “in lontananza”, perché s’innamora della immagine idealizzata di Pamina; le attribuisce un’esistenza fisica solo quando riesce a realizzare di volerla abbracciare e “farla sua” per sempre. Ciò avverrà quando avrà completato il cammino spirituale iniziato con il dono del flauto magico da parte della Regina della Notte, che lo condurrà all’amore vero attraverso la Bildung

 


 

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Tarcisio Balbo

Giovanni Paolo di Mercurio, librettista, libraio, poligrafo e bibliotecario nella Sicilia del Settecento

La ricerca sulla diffusione e il patrocinio della musica drammatica nel Settecento si è tradizionalmente concentrata sui grandi centri urbani, le maggiori famiglie nobili, i cantanti, i compositori, gl’impresari e i letterati di fama, e ha posto ai margini dell’indagine scientifica le comunità e i personaggi di minore rilievo. Questi e quelle, invece, si rivelano essere sempre più gli snodi e i vettori di una fitta rete di comunicazione ancora poco conosciuta, lungo la quale circolano partiture, libretti, scenografie, costumi, musicisti e maestranze che diffondono in modo capillare i temi e il linguaggio melodrammatico coevo. È il caso del palermitano Giovanni Paolo di Mercurio: bibliofilo, libraio, bibliotecario al Collegio Massimo di Palermo, poligrafo, letterato con interessi nella librettistica, che tra il 1745 e il 1746 cura a Palermo un’edizione in sei volumi dei drammi di Apostolo Zeno (di fatto un’edizione pirata che ricalca quella veneziana del Pasquali, pubblicata negli stessi anni) e finanzia la stampa di alcuni libretti d’opera per il locale Teatro di Santa Cecilia. Di Mercurio è attivo anche come librettista soprattutto a Piazza Armerina, oggi nell’ex provincia di Enna, dove tra il 1754 e il 1755 firma i testi drammatici di tre azioni sacre: una per la festa patronale (Il prodigioso vessillo ritrovato da’ piazzesi, musica di Salvatore Bertini), e due per la monacazione di altrettante rampolle della nobile famiglia Trigona, il più eminente casato cittadino (L’incontro di Seila, musica ancora di Bertini; David, musica anonima, tratta in realtà dall’Attilio Regolo del Metastasio intonato da Jommelli a Roma nel 1753). I tre libretti del Di Mercurio testimoniano gli scambi culturali tra Palermo e una delle maggiori città demaniali dell’isola: sui frontespizi l’autore compare infatti come membro dell’Accademia del Buon Gusto di Palermo, tra le maggiori accademie siciliane del Settecento, colonia dell’Arcadia, tra i cui membri figura Giovanni Filingeri di Cutò (1667-1769), citato dal Crescimbeni nelle Vite degli Arcadi illustri e già abate del Gran Priorato di Sant’Andrea a Piazza Armerina. Un altro tramite fra il Di Mercurio e la nobiltà piazzese, e più in generale tra questa e l’ambiente letterario e musicale palermitano, potrebbe essere anche il gesuita Vespasiano Maria Trigona (1692-1761), piazzese, parente delle monacande omaggiate dal Di Mercurio, professore al Collegio Massimo di Palermo, protagonista di una polemica letteraria con Ludovico Antonio Muratori, e membro dell’Accademia degli Ereini di Palermo col nome di Griseldo Eracleo.

 


 

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Giovanna Barbati-Francesco Maschio

Un’ipotesi di ri-costruzione: un percorso formativo per il violoncellista improvvisatore al basso continuo

Il lavoro si basa principalmente sull’analisi e confronto di alcune composizioni per violoncello di alcuni autori italiani del settecento, in particolare:

- “Lezioni per il violoncello con il suo basso” di Antonio Caldara (manoscritto: Österreische Nationalbibliothek, Musiksammlung, Vienna)

- “Principes ou l’application du violoncelle”di Salvatore Lanzetti (Amsterdam, prima del 1770)

- “Sonate” di Francesco Supriani (manoscritto: Biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella”, Napoli, MS 9607)

e di come questi materiali possano rappresentare una serie di significativi esempi per la formazione del violoncellista, secondo la tradizione e le metodologie dei partimenti, in una possibile prospettiva di utilizzo per l’approfondimento delle prassi improvvisative nell’esecuzione del basso continuo e, in generale, del repertorio italiano settecentesco per violoncello. 

Il lavoro approfondisce la ricerca sul metodo didattico storico alla base delle competenze improvvisative dello strumentista ad arco barocco con funzione di continuo, iniziata con la relazione “Il n’exécute jamais la Basse telle qu’elle est écrite. L’improvvisazione nella didattica del basso d’arco” tenuta al Convegno “Musical Improvisation in the Baroque Era”, Lucca, maggio 2017. L’ipotesi di una didattica storica analoga a quella del partimento, adattata alle specificità dello strumento ad arco, in particolare al violoncello e alla viola da gamba, era nata da una prima lettura e analisi delle opere di Francesco Supriani, Salvatore Lanzetti e Antonio Caldara. Ma proprio una successiva e più approfondita osservazione di questi lavori, un loro più puntuale confronto con i contemporanei esercizi della scuola dei partimenti, unitamente ad una serie di riflessioni sulle caratteristiche e sulle funzioni specifiche degli strumenti bassi ad arco autorizzerebbero ad avanzare l’ipotesi che i materiali composti da Caldara, Supriani e Lanzetti possano rientrare nella categoria dei solfeggi o dei partimenti realizzati. Tale ipotesi pare ulteriormente rafforzata anche sulla base di testimonianze storiche e dagli studi musicologici sulla prassi esecutiva e didattica,  ponendo dunque le condizioni per una ri-costruzione di un processo formativo basato su strumenti e metodologie derivate dall’esperienza dei partimenti; esperienza che aveva permesso l’efficace costruzione delle competenze necessarie allo svolgimento della professione del musicista in epoca barocca e che potrebbe dunque facilitare un migliore approccio didattico alle prassi improvvisative nell’esecuzione del basso continuo per i musicisti del secolo XXI.

 


 

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Chiara Bertoglio

Riformare la Chiesa partendo dalla musica: due sacerdoti del Cinquecento nel clima pretridentino

Nella ricorrenza del cinquecentenario della Riforma di Lutero, torna di attualità lo studio della musica nell’ambito dei movimenti di rinnovamento spirituale del Cinquecento, che, in ambito cattolico, portarono al Concilio di Trento ed al fiorire di esperienze musicali e religiose come l’Oratorio di San Filippo Neri. La relazione proposta prenderà in esame due figure che operarono al cuore dei movimenti di riforma della liturgia cattolica, influendo notevolmente, seppur indirettamente, sul Concilio stesso. Biagio Padovano, detto “Rossetto”, fu organista della Cattedrale di Verona per molti anni, al tempo del Vescovo Gian Matteo Giberti: su incarico del presule, affidò alle stampe il suo Libellus de rudimentis musices destinato alla formazione culturale e liturgica degli “accoliti”, studenti di una scuola ecclesiastica che precorse l’istituzione dei seminari. Pur nella sua forma didattica, il Libellus rivela molte delle convinzioni profonde di Rossetto, per il quale l’attenzione alla proprietà liturgica – anche in dettagli squisitamente umanistici come l’accentuazione delle parole – diviene la porta d’accesso ad una riforma del clero, e, di conseguenza, del popolo di Dio. Bernardino Cirillo, altro sacerdote e umanista del Centro Italia, indirizzò invece una celebre lettera ad Ugolino Gualteruzzi, nella quale – pur da amatore e non da professionista della musica, a differenza del Rossetto – manifesta a sua volta il proprio interesse e la propria preoccupazione nei confronti degli abusi che si verificavano nella celebrazione del culto divino, e dei rischi rappresentati da alcune prassi tipiche della composizione polifonica. Anche se gli scritti di Rossetto e di Cirillo qui presentati sono ben noti alla comunità musicologica, riteniamo che un confronto fra i loro punti di vista possa essere interessante, soprattutto alla luce dell’influenza che esercitarono sul Concilio: la lettera di Cirillo, infatti, ambiva a conquistare l’attenzione di Ludovico Beccadelli, che poi svolse un ruolo di primo piano nel Concilio, mentre Rossetto, con il suo vescovo Giberti, pose in atto riforme liturgiche e pastorali che anticiparono molte delle deliberazioni dell’assise tridentina.

 


 

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Giovanni Bianco

Paolo Benedetto Bellinzani, per un contributo alla catalogazione dei manoscritti autografi e alla ricostruzione biografica

Il presente lavoro nasce come diretta conseguenza dell’attività di documentazione svolta nell’ambito del gruppo di ricerca per la valorizzazione e la rinascita della famiglia Bellinzani, maestri e compositori del Settecento (www.bellinzani.com). Da anni una équipe di studiosi, e l’associazione fiamminga CNOLIS (www.cnolis.eu), portano avanti con passione attività mirate alla promozione e diffusione di Paolo Benedetto Bellinzani. L’elaborato verte su tre punti, l’uno congiunto all’altro: il contesto storico e produttivo in cui il compositore opera, la ricostruzione biografica di Paolo Benedetto Bellinzani (esigue le informazioni enciclopediche), la descrizione catalografica dei manoscritti autografi siti presso l’Archivio storico del Duomo di Pesaro; quest’ultima necessaria non solo per un contributo bibliografico, ma per far chiarezza sullo stato dei testimoni. Attraverso un lavoro sviluppato nell’ottica della filologia attiva si è voluto mettere in luce la grande vitalità della cappella musicale pesarese e, più in generale, del territorio marchigiano nella prima metà del Settecento. Questa trattazione, che spero possa essere un valido contributo, ci restituisce solo un piccolo tassello del mosaico; come emerso nel corso della ricerca, le vicende delle cappelle musicali rappresentano la vera ossatura della scena musicale pesarese e dei luoghi limitrofi, territori ancor oggi, fatte le dovute eccezioni, poco investigati.

 


 

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Carlos Gutiérrez Cajaraville

Sensing sound, hearing images: Giordano Bruno, empathy, and the creation of sound images in the Renaissance

In the last years, the experience of (musical) sound has generated a charming attraction to scholars who, from a wide range of perspectives and disciplines, placed sound as substantial part of their inquiries. Anthropologists, philosophers, psychologists and neuroscientists are doing an exciting work, unveiling the variety of reactions music elicited in human beings. But we still need to explore further questions concerning emotions and musical responses from a historical point of view. The issue of how music moved the listener preoccupied many theoreticians and musicians in the Renaissance. In this sense, my communication will focus fundamentally on Giordano Bruno’s figure (1548-1600), a thinker who situates images at the core of his philosophical project. At the end of Book I from De imaginum, signorum et idearum compositionem (1591), Bruno emphasizes the role of music in the creation of images, phantasmagorias that were full of vibrancy and motion, sonic figures that found in human beings their resonance, their mirror, their echo. Listeners sense, feel and, ultimately, think in a kind of empathy with music. Such a fact is expressed in an extraordinary eloquent way by Spanish music theoretician Juan Bermudo: “Our soul seems to have a great and secret kinship and familiarity with music... Music impresses and pour [on men] the property of its nature with marvelous delight, both in the spiritual and the corporeal, and captivates all men, and men becomes its property. Depending on the chant heard, so will be the man”. In order to exemplify more deeply such an empathetic way of perceiving, I will analyze the sonic images created in Maria Magdalena et altera Maria, an impressive motet composed by Francisco Guerrero. To stress the relevance of the theories of such a figure like Giordano Bruno will lead us to a two-fold perspective: firstly, situating the person and his thoughts in his context, connecting him with his contemporaries, will lead us to an interesting historical approach. But it is also interesting to create a figure of our own, to see how Bruno’s theories could be actual and meaningful in the present day. To do so, I find useful to contrast briefly the notions of Bruno and his contemporaries with the theory of Einfühlung as set out by Theodor Lipps at the turn of the twentieth-century, where the idea of empathy in aesthetic experience found, perhaps, its highest and most refined, thoughtful expression.

 


 

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Attilio Cantore

«In ozio alcun non stia / La nostra batteria / Facciam ben risuonar». Ricognizione sugli aspetti massonici de Gli Zingari in fiera di Paisiello

Che Giovanni Paisiello sia stato vicino agli ideali della Libera Muratoria, favorito anche dall’amicizia e dalla collaborazione con Ferdinando Galiani, è ormai cosa nota, ma ancora molto può essere scritto con ineffabili benefici circa l’influenza di tali ideali sulle opere del Tarantino, commedie o drammi che siano. La mia indagine si concentra nello specifico su Gli Zingari in fiera, allestita a Napoli nell’anno della Rivoluzione francese, avendo rilevato in quest’opera buffa un vivo côté massonico, caratterizzante a livello drammaturgico nell’azzardo di numerose allegorie, che con assenza di stupore si fonde peraltro perfettamente con aspetti afferenti tanto ai legami matrimoniali quanto al libertinismo, nell’accezione più ampia che l’Illuminismo riconosceva a questo termine.

 


 

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Paolo Cavallo

Le Messe brevi di Giovanni Bononcini (1688) e di Giovanni Ambrogio Bissone (1722, 1726). Proposte di lavoro per un confronto intertestuale

Il presente contributo intende sviluppare la storia della produzione e della stampa di messe brevi tra l’area bolognese e lo stato sabaudo tra il 1662 e il 1726. La presenza, all’interno del fondo musicale dell’Archivio capitolare della Basilica di Sant’Eusebio di Vercelli, delle Messe brevi a otto voci col primo, e secondo organo se piace di Giovanni Bononcini (Bologna, Giacomo Monti, 1688), oltre a costituire testimonianza bibliografica certa delle relazioni tra Bologna e il Piemonte di Vittorio Amedeo II, permette di identificare in modo piuttosto cogente i modelli scritturali cui si riferì uno degli ultimi autori che, nel primo quarto del Settecento, diede seguito ad una tradizione editoriale piuttosto recente, quella delle messe ad otto voci con accompagnamento di due organi, monopolizzata dalle tipografie felsinee e, sino ad ora, poco frequentata dagli studi musicologici.1 Giovanni Ambrogio Bissone, maestro di cappella della cattedrale di Vercelli tra il 1687 e il 1726, fece infatti stampare, dall’editore bolognese Giuseppe Antonio Silvani, le Messe a otto voci piene […] opera seconda (Bologna, 1722) e Il secondo libro delle Messe a otto voci piene […] opera quarta (Bologna, 1726). La prima raccolta di Messe brevi della seconda metà del XVII secolo è quella contenente le Messe brevi a otto voci (Bologna, Antonio Pisarri, 1662) di Maurizio Cazzati. In seguito, uscirono dai torchi due raccolte di Lorenzo Penna (Reggia del sacro Parnaso con il corteggio di sacre muse, ordinate in messe piene e brevi a quattro e otto voci, Bologna, Giacomo Monti, 1677, e Galeria del sacro Parnaso ornata con adornamenti di messe piene, e brevi a 4. et 8. Voci, Bologna, Giacomo Monti, 1678), le già citate Messe brevi di Bononcini e le Messe brevi a otto voci col basso continuo di Francesco Passarini (Bologna, Pier Maria Monti, 1690). Dal confronto tra le raccolte sin qui citate, emerge una duplice strategia architettonica. L’una, “all’uso bolognese” (F. Lora, ad vocem “Lorenzo Penna”, in DBI, 2015), si concentrò sulle prime tre sezioni dell’Ordinarium Missae (Kyrie, Gloria, Credo) e fu praticata da Cazzati, Penna e Passarini; l’altra, fatta propria da Bononcini e Bissone, si fece carico di musicare tutte e cinque le sezioni dell’Ordinarium. Lo studio si concentrerà sulle relazioni testurali, armoniche e strutturali esistenti tra le Messe brevi di Bononcini e Bissone attraverso una serie di esemplificazioni, condotte per omologia o discrasia, tra le loro tre raccolte.

[1] Si vedano, ad esempio: Marc Vanscheeuwijck, The Cappella Musicale of San Petronio in Bologna under Giovanni Paolo Colonna (1674-1695), Brussels-Rome, Institut Historique Belge de Rome, 2003; Id., Giovanni Paolo Colonna and Petronio Franceschini. Building acoustics and compositional style in late seventeenth-century Bologna, in Towards Tonality. Aspects of baroque musicale theory, Leuven, Leuven University press, 2007, pp. 171-201; Gregory Barnett, Bolognese Instrumental Music, 1660-1710: Spiritual Comfort, Courtly Delight, and Commercial Triumph, Aldershot, Aschgate, 2008; Francesco Lora, Giacomo Antonio Perti: il lascito di un perfezionista. Aspetti della personalità per una nuova ipotesi sull’entità numerica e qualitativa delle opere, Un anno per tre filarmonici di rango: Perti, Martini e Mozart, a cura di Piero Mioli, Bologna, Pàtron editore, 2008, pp. 47-76; Maurizio Cazzati 1616-1678 Musico guastallese. Nuovi studi e prospettivi metodologiche, a cura di Paolo Giorgi, Guastalla, Associazione “Giuseppe Serassi”, 2009; Dizionario degli editori musicali italiani. Dalle origini al 1750, a cura di Bianca Maria Antolini, Pisa, ETS, 2011..

 


 

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Benedetto Cipriani

La didattica del partimento romano e le Regole per ben [son]are | il cembalo [...] di Alessandro Scarlatti (D-Hs M A/251)

Il partimento fu il metodo didattico principale utilizzato in Italia nel XVIII e XIX secolo per l’insegnamento della pratica improvvisativa e dell’arte compositiva. Tale pratica venne perfezionata e tramandata ininterrottamente da ben cinque generazioni di maestri napoletani ma fu anche alla base degli insegnamenti dei maestri delle scuole settecentesche romane. La sua genesi ed i suoi sviluppi, tuttavia, non appaiono del tutto definiti e studiati. Con ogni probabilità la pratica e la didattica del basso continuo e del versetto liturgico potrebbero essere state funzionali e determinati per il concepimento di una differente metodologia didattica come quella del partimento. Una scrittura maggiormente rivolta all’insegnamento pratico e specifico della composizione, dell’accompagnamento e dell’improvvisazione, plausibilmente, potrebbe essersi sviluppata in modo esclusivo all’interno di contesti particolarmente ricettivi dal punto di vista formativo come quello dei conservatori napoletani e della tradizione didattico musicale tastieristica romana. Ad oggi, comunque, non è possibile pronunciarsi con esattezza circa una genesi del tutto napoletana o romana di tale prassi. Le nuove fonti sembrano però incoraggiare una ricerca in tal senso. Bernardo Pasquini, presumibilmente, fu colui che per primo, in ambito romano, rese funzionale all’insegnamento la tradizione didattica del continuo e del versetto liturgico (esemplificativa di quanto affermato è la fonte GB-Lbl Add. MS. 31501 I-III, una raccolta, datata 1704, di sonate, bassi e versetti, con finalità dichiaratamente pedagogiche). Dall’esame delle fonti romane risulta, con evidenza, che i suoi allievi Alessandro Scarlatti, Francesco Gasparini e Tommaso Bernardo Gaffi e gli allievi di seconda generazione, Girolamo Chiti e Andrea Basili, di fatto praticarono e si formarono con il metodo del partimento. Alessandro Scarlatti e Francesco Durante (allievo anch’egli del Pasquini) contribuirono alla diffusione e alla definizione di tali insegnamenti all’interno del sistema educativo dei Conservatori napoletani (indicativa in tal senso la presenza di alcuni partimenti di Bernardo Pasquini nel manoscritto I-Nc Rari 1- 9-14/1, Principj e regole di partimenti con tutte le lezioni di Carlo Cotumacci e la presenza dei Partimenti antichi per cembalo del sig. d. Bernardo Pasquini nella fonte I-NT Fondo Altieri 28 conservata presso la Biblioteca Comunale “Principe di Villadorata” del Comune di Noto). Nei conservatori, integrandosi con la locale e già presente tradizione didattica, il partimento si istituzionalizzò e definì nell’attuale e conosciuta pratica mentre a Roma, perlopiù, rimase sporadicamente relegata all’interno degli Istituti Ecclesiastici ed assistenziali cittadini. La presenza dei ‘bassetti’ di Raimondo Lorenzini nel manoscritto D-B Mus.Ms.Theor 1483, prima fonte romana datata 1696, conferma tuttavia l’esistenza di una specifica tradizione originatasi a Roma alla fine del seicento e probabilmente tramandata interrottamente negli insegnamenti degli organisti romani nel XVIII secolo. Diverse altre nuove fonti attestano l’esistenza di una tradizione didattica locale del partimento ma la più importante, di recente scoperta ed oggetto di trattazione, è la fonte D-Hs M A/251 Regole per ben [son]are | il cembalo […] di Alessandro Scarlatti. Il manoscritto, conservato presso la Staats- und Universitätsbibliothek Carl von Ossietzky di Amburgo, è da considerarsi la più importante raccolta di partimenti mai studiata. Essa, tuttavia, non può essere ascritta ad una specifica tradizione didattica se non a quella di un autore che può essere considerato il punto di incontro delle due differenti menzionate. L’intervento sarà incentrato, pertanto, sulla didattica del partimento nel contesto romano e sugli autori chiave di tale prassi che operarono e si formarono a Roma nel corso del XVIII e XIX secolo. Si cercherà di tracciare e definire un breve quadro genealogico delle generazioni di musicisti che si occuparono di partimenti a Roma con particolare riguardo nei confronti di Alessandro Scarlatti e la sua nuova fonte DHs M A/251 Regole per ben [son]are | il cembalo […].

 


 

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Luigi Collarile

Legrenzi sacro. Intorno ad alcuni manoscritti dimenticati

In questo contributo saranno presentate e discusse alcune fonti manoscritte sconosciute o poco note, risalenti alla seconda metà del Seicento e al primo Settecento, oggi conservate a Modena, Vienna e Roma, che trasmettono composizioni sacre di Giovanni Legrenzi: sintomatiche testimonianze della peculiare ricezione che la produzione di uno dei protagonisti della scena musicale nord-italiana del secondo Seicento ha conosciuto.

 


 

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Frédéric Degroote

Le Primo libro di madrigali de Jean Desquesnes (Anvers, Phalèse, 1594): Première tentative d’analyse d’un certain madrigal des anciens Pays-Bas méridionaux

En 1594 paraît à Anvers Il primo libro de madrigali a cinque voci de Jean Desquesnes, chanteur à la chapelle royale de Bruxelles. Peu d’informations sont à ce jour connues s’agissant du compositeur. Son recueil de 1594 – l’unique imprimé attribué à Desquesnes – constitue néanmoins un cas d’étude intéressant en vue d’appréhender la dynamique madrigalesque qui s’instaure dans les anciens Pays-Bas méridionaux, et plus particulièrement à Anvers, dès les années 1580. Pierre Phalèse et Jean Bellère remportent en effet un certain succès en publiant, dès 1583, plusieurs anthologies de madrigaux mêlant compositeurs italiens et locaux et dédiant ensuite, à des compositeurs issus des anciens Pays-Bas parmi lesquels figurent Desquesnes, des publications individuelles. Il s’agira lors de cette communication d’étudier l’agencement de son recueil et quelques-unes de ses caractéristiques, notamment les choix poétiques, en vue d’une mise en perspective de la production à Anvers à cette époque. Cette communication est aussi l’occasion, au départ du cas Desquesnes, de dresser un premier panorama du phénomène madrigalesque à Anvers dans les années 1580 et 1590. Les articles de Kristine Forney, Gerald Hoekstra et Susan Lewis Hammond ont assurément permis de franchir un premier pas dans la compréhension dudit phénomène et le développement général de cette tendance mais peu d’éditions critiques et d’analyses des livres de madrigaux ont vu jusqu’ici le jour.1 Il s’agira aussi d’interroger le postulat – encore vivace – hérité d’Alfred Einstein selon lequel la production madrigalesque des musiciens flamands après Cipriano de Rore, Roland de Lassus, Philippe de Monte et Giaches de Wert revêt un moindre intérêt que celle de leurs collègues italiens.2 Cette communication sera donc l’occasion d’une première réévaluation du genre tel qu’approprié par les compositeurs issus des anciens Pays-Bas

 

[1] Kristine Forney, The role of Antwerp in the Reception and Dissemination of the Madrigal in the North, in Produzione e distribuzione di musica nella società europea del XVI e XVII secolo, IMSCR 14, Bologna 1987, I, p. 235-253, Gerald Hoekstra, The Reception and Cultivation of the Italian Madrigal in Antwerp and the Low Countries, 1555-1620, «Musica disciplina», XLVIII, 1994, pp. 125-187 et Susan Lewis Hammond, Selling the Madrigal: Pierre Phalèse II and the Four ‘Antwerp Anthologies’, in Yearbook of the Alamire Foundation, 6, Leuven-Neerpelt, Alamire, 2008, pp. 225-252.

[2] Alfred Einstein, The italian Madrigal, Princeton, Princeton University Press, 1949.

 


 

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Antonio Dell’Olio - Maurizio Rea

Aspetti stilistici e strutturali della produzione mottettistica di Gaetano Veneziano (1656ca. - 1716)

Nel 1684 Veneziano fu eletto primo maestro di cappella al Real Conservatorio di Santa Maria di Loreto a Napoli, sottostando a stringenti vincoli contrattuali, tra cui: «Componere una messa a quattro voci con gl’istromenti, et infine dell’anno una messa a due cori [...], et ogni mese un mottetto». Tale impegno informa sulle scelte di genere prescritte a uso didattico, oltreché sui ritmi di lavoro a cui erano sottoposti i maestri di cappella provvisionati dal conservatorio. Al momento manca una organica indagine sulla fenomenologia mottettistica riguardante gli ultimi decenni del Seicento napoletano nelle sue proteiformi declinazioni. Il pressoché sommerso assortimento di fonti manoscritte, in attesa di sistematica ricostruzione, fornisce le tracce residue di un patrimonio in gran parte disperso o relegato in luoghi di consultazione a tutt’oggi inaccessibili. D’altro canto l’esiguità delle raccolte di mottetti a stampa pubblicate a Napoli tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento consentono di cogliere solo in parte l’entità del fenomeno mottettistico quale prodotto di largo e rapido consumo. A Napoli prevalsero i mottetti concertati a più voci con accompagnamento orchestrale, soprattutto nella variante cosiddetta del mottettone all’uso napoletano. La ricerca in corso su Gaetano Veneziano, da tempo condotta dagli studiosi del presente intervento, ha rivelato l’esistenza di un corpus esiguo di mottetti del compositore pugliese, al momento quantificabile solamente in sei titoli, un dato senz’altro incongruente rispetto agli obblighi istituzionali del musicista. L’indagine condotta intende evidenziare la versatilità del compositore nell’affrontare scritture differenti, cogliendo gli aspetti strutturali, funzionali e le scelte di organico adottate nei mottetti per poche voci, nei mottettoni, e nei mottetti solistici esaminati.

 


 

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Francesco Esposito

«Je fais ici de très brillantes affaires»: una lettera inedita di Sigismund Thalberg dal Brasile e la ricostruzione della sua attività iberoamericana

Lo speciale attivismo sociale, finalizzato alla costruzione di una rete di relazioni personali e necessario al concertista di inizio Ottocento per capitalizzare, con risultati economici non sempre gratificanti, la sua presenza nelle diverse città visitate sembra in parte superato intorno alla metà del secolo grazie alla modernizzazione della società che inizia a mostrare, anche in relazione al mercato musicale, quelle che oggi chiameremmo le dinamiche tipiche della cultura di massa. La profonda trasformazione del concertismo ottocentesco viene subito colta dai cronisti del tempo che identificano le sue cause nel grande sviluppo dei mezzi di trasporto (grazie alla modernizzazione della rete ferroviaria e delle comunicazioni marittime che consente adesso di raggiungere in poco tempo anche i centri più periferici e includere nei tours concertistici mercati, come quelli extraeuropei, fino ad allora inesplorati), così come nella diffusione dei mezzi di comunicazione come il telegrafo (che permette di inviare e ricevere rapidamente le informazioni dai punti più distanti dei diversi continenti) e le riviste specializzare di musica (che immediatamente comunicano, amplificano, commentano e pubblicizzano le notizie relative ai più famosi musicisti del tempo). Sigismund Thalberg sembra essere tra i primi e più famosi interpreti di questo cambiamento epocale nella maniera di intendere e organizzare l’attività concertistica mostrando di sapersi adattare ai diversi contesti nei quali si trovò di volta in volta ad operare. Esemplare, da questo punto di vista, l’attività svolta dal pianista ginevrino nel periodo in cui si collocano le sue tappe nella penisola iberica e in Sudamerica, attività che, tuttavia, non ha ancora ricevuto praticamente attenzione da parte degli studiosi. Grazie al ritrovamento di una lettera di Thalberg scritta durante il suo soggiorno brasiliano e alle notizie forniteci dalla stampa del tempo cercherò dunque, nella mia relazione, di fornire un contributo al fine di iniziare a colmare questa lacuna fornendo nuovi dati sia sull’attività del musicista che sulla trasformazione del concertismo ottocentesco. 

 


 

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Giuseppe Fiorentino

«Sonare sopra tenori»: l’improvvisazione strumentale nel Rinascimento tra Italia e Spagna

Nel secondo libro del Trattado de glosas, pubblicato a Roma nel 1553, il toledano Diego Ortiz descrive tre principali tipologie d’improvvisazione strumentale: 1) “fantasía”; 2) “sopra canto piano”; 3) “sopra le composizioni a più voci”. Le tecniche di improvvisazione “sopra canto piano” e “sopra le composizioni a più voci” non sono abbordate dal punto di vista teorico o metodologico, ma mediante una serie di esempi musicali (“recercate” in italiano, o recercadas in castigliano) che il lettore userà come modello per imparare a improvvisare. Alla fine del trattato l’autore fornisce altri otto esempi musicali di quella che apparentemente costituisce una quarta tipologia d’improvvisazione “sopra tenori”, ossia sopra quegli schemi armonici come il Passamezzo, la Romanesca o la Follia, le cui caratteristiche sono state oggetto di accurati studi musicologici durante gli ultimi cinquanta anni. In realtà, secondo le parole dello stesso Ortiz, l’improvvisazione “sopra tenori” non differisce dall’improvvisazione “sopra canto piano”: sembrerebbe quindi che la dimensione melodica dei “tenori” sia preponderante rispetto a quella armonica nel processo di improvvisazione. In questa contribuzione, comparando il contenuto dei libri di Ortiz con altri trattati e collezioni di musica strumentale pubblicati in Spagna a metà del Cinquecento, saranno analizzati i processi di improvvisazione relativi alle recercadas “sopra canto piano” e sopra “tenori” per sottolineare analogie e differenze tra queste due tipologie; in particolar modo saranno prese in considerazione le caratteristiche dei “tenori” più significativi dei repertori italiano e spagnolo, così come la loro relazione con le rispettive tradizioni orali e popolari. Come suggeriscono le fonti, l’accesso limitato da parte dei musicisti alle nozioni teorico-pratiche necessarie per la corretta improvvisazione di musica strumentale, contribuì all’affermarsi, tanto in Italia come in Spagna, del genere d’improvvisazione “sopra tenori” che, pur avendo le proprie radici nelle tecniche di contrappunto improvvisato “sopra canto piano”, poteva essere appreso con più facilità e mediante la pratica e l’imitazione dei modelli scritti.  

 


 

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Ana Maria Flori Lopez

La ópera italiana y su repercusión en el àmbito social de la ciudad de Alicante entre los años 1850 y 1900

El objetivo de este trabajo es exponer, detallar y dar a conocer las principales representaciones de ópera italiana que tuvieron lugar en el Teatro Principal de Alicante durante la segunda mitad del siglo XIX a través de las críticas y reseñas aparecidas en los principales diarios de la ciudad, en los cuales se refleja la recepción que tuvieron las óperas en el público de clase social elevada y su divulgación posterior en las sociedades artístico-recreativas de la época. El Teatro Principal y todos los que surgieron en su entorno, estrenaron la mayoría de las óperas de moda, aprovechando las giras que realizaban las compañías italianas y españolas por diversas ciudades, de cuyo eco daban buena cuenta los diarios de la ciudad, ya que sus reseñas ejercieron una gran influencia en el público asistente. Por este coliseo pasaron muchos intérpretes italianos que, junto a cantantes y músicos locales, contribuyeron a la difusión de un rico y variado repertorio muy del gusto de la época. De igual forma, la ópera italiana se extendió a las sociedades artísticas, en las que los músicos más relevantes de la ciudad formaban a sus socios con una serie de arreglos de fragmentos operísticos, especialmente para voz con acompañamiento de piano, que eran interpretados por músicos aficionados. Actualmente existen muy pocos estudios que profundicen acerca de la ópera italiana en Alicante; las fuentes principales para la realización de este tema se encuentran en un legado particular, depositado en la Obra Social de la Caja del Mediterráneo, que contiene carteles, programas y alguna reseña de prensa de las representaciones teatrales efectuadas desde que se construyó el Teatro Principal. El contenido del trabajo estará basado en el material recogido de los comentarios aparecidos en la prensa de la época, así como en la reproducción de programas y datos recogidos de diversos archivos y hemerotecas. Al tratarse de un tema poco tratado, aportaré nuevos datos sobre la difusión de la ópera italiana, que resultarán interesantes desde el punto de vista musicológico y elaboraré un cuadro en el que aparezcan cronológicamente las representaciones de ópera con sus compañías, intérpretes, directores y orquestas.

 


 

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Giacomo Franchi

Le Sei sonate per cembalo Op. 6 [bis] di Giovanni Marco Rutini: una nuova lettura

Nel 1762 Lelio della Volpe pubblica le Sei sonate per cimbalo Op.6 di Giovanni Marco Rutini dedicate al marchese di Bologna Albergati Capacelli. Nello stesso anno, Rutini, intesse una fittissima relazione epistolare con Padre Martini e, poco dopo, viene nominato ufficialmente Accademico Filarmonico a Bologna. Le sue opere per clavicembalo hanno già grande fama internazionale grazie, soprattutto, al celebre editore che ne ha fin ora stampati i lavori, Haffner di Norimberga. Si pensi che, una decina di anni dopo, nel 1771, Leopold Mozart, in viaggio con il figlio, avrebbe chiesto alla moglie di inviargliene copia aggiungendo che, se la sorella si fosse dispiaciuta di cederle al fratello, avrebbe potuto riacquistarle facilmente. Nel 1761 Rutini rientra a Firenze da San Pietroburgo, dove aveva trovato appoggio e impiego da Nicola I Esterhàzy cui aveva dedicato la sua Op.5 contenente sei sonate per clavicembalo. L’anno successivo, il principe austriaco, di ritorno dal suo incarico diplomatico in Russia, avrebbe assunto Haydn come compositore di corte.

Nella letteratura sulla storia della sonata per tastiera nell’Italia del Settecento, quello di Rutini è un nome conosciuto soprattutto per gli studi di Fausto Torrefranca, che lo aveva eletto a diretto predecessore dello stile di Mozart. Nonostante la cautela con cui deve essere trattato il lavoro del celebre musicologo a causa, soprattutto, delle sue implicazioni nazionalistiche, rimane oggi ancora di gande e indiscussa importanza. Quale è il suo ruolo formale, e come si può collocare questo repertorio nell’ambito della storia della nascente sonata classica? A tale domanda si cerca, con questo intervento, di dare almeno una prima risposta possibile attraverso l’analisi dell’Op.6 di Rutini edita da Lelio della Volpe nel 1762. La scelta di tale raccolta è motivata da diverse ragioni. La prima è quella biografica-cronologica. Quest’opera, infatti, viene pubblicata in anni cruciali della vita del compositore, proprio quando viene nominato Accademico Filarmonico ed è da poco rientrato in Italia dopo il patronato del principe Esterhàzy cui ha dedicato il lavoro precedente. La seconda ragione è metodologica. L’Op.6 di della Volpe, infatti, a causa di alcune vicissitudini editoriali contemporanee, non è presente nelle considerazioni storico-analitiche contenute nei maggiori testi che trattano del lavoro di Rutini. L’approccio analitico adottato nel seguente lavoro mira a descrivere secondo teorie moderne, nello specifico quella di William Caplin, i movimenti allegro contenuti nella raccolta, con lo scopo di riordinare tale materiale in modo chiaro e omogeneo, e dare una prima risposta alla domanda posta precedentemente. Tra gli studiosi che si sono occupati di tale argomento, oltre al citato Torrefranca e al celebre lavoro di Newman, che contiene anche un catalogo ragionato dell’opera per tastiera del compositore, si sottolineano le opere di Hieronymus e Stone, oltre alle più recenti di Lombardi, Sanders, Brown e Pestelli, che si concentrano, le prime tre, sull’analisi di alcune opere e ricostruiscono le vicende biografiche di Rutini e, la terza, sui rapporti tra Rutini e gli autori del primo classicismo maturo, soprattutto Mozart.

 


 

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Michelangelo Gabbrielli

I canoni di più sorti fatti sopra dei canti fermi del primo tuono di Fulgenzio Valesi

Nell’Archivio Musicale del Duomo di Como si conserva una raccolta di Fulgenzio Valesi, monaco cisterciense, interamente dedicata alla tecnica del canone su cantus firmus, pubblicata a Milano nel 1611. Le varie possibilità contrappuntistiche della tecnica del canone sono qui indagate secondo un percorso di tipo didattico che prende le mosse da un’analoga raccolta di Giovanni Paolo Cima, cui fa espresso riferimento lo stesso Valesi. I canoni sono prevalentemente a tre e a quattro voci. I cantus firmus utilizzati sono due, dei quali il primo viene di volta in volta intonato su testi liturgici – antifone – afferenti a diverse celebrazioni riguardanti varie momenti dell’anno liturgico. I canoni non si svolgono secondo indicazioni didascaliche riconducibili alla pratica, di ascendenza fiamminga, dei canoni enigmatici, ma sono concepiti piuttosto come esemplificazione pratica di una ugualmente rigorosa tecnica contrappuntistica, e sono, per la maggior parte, risolti dallo stesso autore. L’intento didattico di Valesi vuole dunque unire la tradizione della grande tecnica contrappuntistica a un tipo di pratica musicale immediata, asciutta, in linea con i dettami musicali della Controriforma e, più specificamente, di una tradizione che a Milano, nel circolo gravitante intorno a Cima, fu particolarmente sentita. Di questa tradizione ne sono testimonianze dirette la Canzoni e contrappunti doppii a 2, 3 e 4 voci (1609) dello stesso Cima e la Regola del contraponto e della musical compositione di Camillo Angleria, allievo di Cima, che in questo suo scritto pubblica alcuni canoni del suo maestro. La fama di Valesi come contrappuntista - particolarmente abile nella composizione di canoni - dovette essere piuttosto diffusa ai suoi tempi, come testimoniano alcune citazioni che di lui ne fa Adriano Banchieri nella Cartella Musicale, ponendolo accanto a Giovanni Maria Nanino, e, ancora una volta, a Cima.

 


 

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Rossella Gaglione

Prodromi per una musicologia satirica? Un omaggio a Giovanni Morelli

La relazione, come sottolineato dal titolo, si propone come un modesto omaggio alla complessa musicologia di Giovanni Morelli ed ha il preciso scopo di dimostrare in che termini possa essere possibile considerarla una musicologia satirica. L’aggettivo ‘satirico’ va qui inteso nella duplice accezione semantica che rimanda, rispettivamente, alla satira (legata al riso pungente) e alla satura (etimo latino che significa “piatto ricolmo di pietanze”): il riferimento è all’utilizzo del sarcasmo intelligente con cui Morelli si approccia alla straordinaria varietà degli argomenti che convogliano nella sua intricata teoria estetico-musicale. Un viaggio attraverso i testi più importanti del musicologo (Il morbo di Rameau: la nascita della critica musicale, Paradosso del farmacista. Il Metastasio nella morsa del tranquillante, Scenari della lontananza. La musica del Novecento fuori di sé) permetterà di enucleare alcuni temi strutturanti la weltanschauung musicologica morelliana: primo tra tutti la duplicità semantica del tempo (rappresentata dalla doppia faccia cronologico-cairologica del divenire) e il legame fortissimo con la dimensione spaziale; a seguire sarà analizzato il concetto di rappresentabilità del testo musicale (indagine che condurrà a chiarire il rapporto spinoso che il suono intesse con l’immagine), poi l’ironia (che rientra non solo nella modalità tipicamente morelliana – modulata dalla filosofia settecentesca – di approccio alle questiones, ma che concerne anche – probabilmente – una proprietà particolare del fare musica e del farsi musica) e la nascita della critica musicale (come presa di coscienza delle problematiche relative alla musica e al suo contesto). Infine si tenterà un’analisi nuova, sulla scia delle teorie morelliane, del paradigma del rito-sacrificio nella tragedia metastasiana attraverso la comparazione con le teorie antropologiche di Frazer e Girard. Consapevole che la musicologia morelliana abbia ancora tanto da dire a quella contemporanea, l’omaggio migliore che le si possa tributare sta nel permettere ai podromi satirici in essa contenuti di rivivere attraverso la memoria.

 


 

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Barbara Gentili

La vocalità italiana diventa ‘moderna’

L’oggetto principale della mia ricerca riguarda l’evoluzione della vocalità italiana nelle decadi a cavallo tra Ottocento e Novecento (1890 - 1920). L’elemento cruciale di questa investigazione consiste nelle diverse scelte estetiche che i cantanti nati dopo il 1870 adottarono in tema di ‘vocal registration’, ossia nel modo di unire, bilanciare e/o fondere i differenti registri vocali. Il mio assunto è che siffatta trasformazione del canto italiano, che in questa specifica fase della sua storia diventa ‘moderno’, è legata in modo inestricabile alla coeva produzione del repertorio verista. Questioni e contenuti relativi all’opera e al canto verista sono state ampiamente dibattute dalle discipline musicologiche storiche e delle prassi esecutive sin dagli anni ‘80 del secolo scorso. Tuttavia, un’analisi sistematica riguardante le innovazioni squisitamente tecniche e i trends pedagogici inerenti alla vocalità per se è a tutt’oggi mancante. La mia ricerca è un tentativo di porre rimedio a tale stato dell’arte e mira ad individuare ed esplicare le specifiche caratteristiche tecniche, espressive e stilistiche in cui il cosiddetto ‘canto moderno’ si traduce. Con l’avvertenza, però, che siffatta analisi viene condotta da una prospettiva in cui gli elementi stilistici ed espressivi vengono spiegati in virtù dell’evoluzione della vocalità e non, come è la norma tradizionale, viceversa. In altre parole, sulla scia dei più recenti contributi della musicologia storica che propone una lettura ‘invertita’ dei fenomeni musicali — Rebecca Plack (2008) e Sarah Potter (2014) ne rappresentano gli esempi più illustri nel campo della storia della vocalità — io aderisco all’ipotesi che l’insieme delle abitudini tecniche sviluppate dal cantante nella sua pratica giornaliera ne determina lo stile espressivo.

Il ricorso massiccio alle fonti sonore dell’età pre-elettrica pone le molte e note questioni relative alle limitazioni legate a questa tipologia di strumento investigativo. Tale avvertimento dovrebbe comunque essere sollevato per certi versi anche alla lettura ed interpretazione della trattatistica vocale. L’utilizzo congiunto, da me proposto, delle due preziosi fonti ne illumina reciprocamente i rispettivi contenuti. In tal modo, ad esempio, può essere argomentato che il canto aperto o l’abuso del registro di petto, più che ‘effettacci veristi’, si colleghino alla tradizione pedagogica delle scuole ottocentesche più antiche (Boccabadati, Lablache, Lamperti e Marchesi solo per citare alcuni degli esempi più illustri). O, ancora, che la nascita del tenore ‘moderno’ si estrinseca in un modo ‘nuovo’ di risolvere il secondo passaggio, aggiungendo un tassello cruciale al tipo di emissione sperimentata circa sessant’anni prima da Duprez (1837) e alcuni dei suoi contemporanei.

 


 

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Christine Suzanne Getz

The Last Years of the Tini Press

The brothers Pietro, Francesco, and Simone Tini (along with their cousin Michele) were among the most influential printers and book vendors in post-Tridentine Milan. They and their competitors the Tradate dominated the music book trade in the region at the end of the sixteenth century, transforming Milan into an important Italian center for printing and selling music along with Venice, Florence, and Rome. Fenlon, Stevens, and Toffetti have documented the early history of the Tini firm, while Donà and Vitolo, among others, have catalogued the extant music volumes and examined the physical characteristics and production of them. Yet what is known of the operation of the firm for the years 1590-1612 has been gleaned primarily from the extant prints and shop inventories. Using newly uncovered archival documents, this paper shows that the book businesses owned by the second generation of the Tini were restructured as the descendants of Pietro, Francesco, and Simone sought distinct economic solutions that conformed to their ages and gender. The sons of Simone Tini remained at least nominally involved in the music printing business through the efforts of their mother, who forged partnerships not only with Francesco and his heirs, but also with other Milanese bookmen who bought the shares that ultimately were inherited by Francesco’s only living daughter. Meanwhile, the three children of Pietro attempted to resuscitate a failing book business by investing in somewhat risky ventures with other local book vendors and forging partnerships through marriage. When the Tini disappeared from the Milanese book trade in 1612 leaving their current partner Filippo Lomazzo behind, their competitors the heirs of Agostino Tradate also were on the brink of collapse. Whereas the latter had attempted to raise needed funds by reprinting texts that had been popular on the Venetian market, a technique that in some measure had been successfully applied previously by the Tradate press, the heirs of Simone Tini and their partners Francesco Besozzo and Filippo Lomazzo had remained afloat partly by producing distinctive anthologies featuring polyphony by current composers from Milan and the surrounding region.

 


 

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Rosanna Giarraffa

Giovanni Maria Trabaci, Vespri a 5 voci (1634)

Protagonista nelle tre più importanti realtà musicali napoletane (Cappella Reale, Oratorio dei Filippini, Casa dell’Annunziata) G.M. Trabaci non rimane ancorato agli stilemi compositivi della polifonia rinascimentale ma è proiettato decisamente nel mondo tonale che caratterizza la produzione dei primi decenni del Seicento di cui fanno parte i Salmi vespertini (1634). La produzione di Giovanni Maria Trabaci, conservata in massima parte nella Biblioteca dell’Oratorio dei Padri Girolamini di Napoli, comprende composizioni vocali e strumentali sia a stampa che manoscritte. Come per i Mottetti a 4 voci, datati maggio 1634, l’attenzione continua a rivolgersi alle composizioni di musica vocale, soprattutto manoscritti, del Compositore: i Salmi vespertini a 5. La raccolta AMCO 470/5, custodita presso l’Oratorio dei Padri Girolamini di Napoli, contiene anche i Salmi di altri due importanti compositori che hanno operato presso lo stesso Oratorio: Antonio e Francesco Maria Sabino. Nella parte d’organo del primo Salmo, Dixit, si legge: maggio 1634 da mano di copista, unica per l’intero manoscritto. A caratterizzare lo stile di questo repertorio è la sobrietà e l’agilità nel trattamento musicale; i testi non sono trattati in maniera autonoma ma, generalmente, intonati in un unico blocco e quasi mai sottoposti a ripetizioni. È evidente che un tale tipo di produzione rispondesse all’esigenza pratica di un repertorio d’uso per le celebrazioni ordinarie dei Vespri il cui grado di solennità non richiedeva una particolare amplificazione rituale e la cui esecuzione non era affidata ad organici di grandi proporzioni.

 


 

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Alessandro Giovannucci

Paesaggio sonoro: Luigi Nono come pioniere

Durante tutto il corso degli anni Ottanta la produzione musicale e teorica di Luigi Nono si orientò verso la tematica dell’ascolto. Il precoce interesse del compositore veneziano verso le problematiche legate alla ricezione musicale, divenuto recentemente argomento sentito nel dibattito estetico-musicologico, deriva da una mutata sensibilità politica e musicale. L’ascolto rappresenta, nell’ultimo Nono, la potenza atta a sgretolare ogni unidirezionalità comunicativa, tanto di matrice politico-sociale quanto artistica. Per tanto la nuova produzione – da Fragmente-Stille sino a Prometeo – delinea un nuovo rapporto tra il materiale musicale e l’ascoltatore. La composizione musicale comincia sensibilmente ad avvalersi dell’azione creativa dell’ascolto, seguendo quella linea di pensiero, che Nono eredita da Walter Benjamin, secondo la quale chi tace è sorgente irrefrenabile di senso. Tale cooperazione tra ascolto e attività compositiva è conseguenza dalla profonda esplorazione noniana di due dimensioni del mondo sonoro: il silenzio e lo spazio. Manipolandone i parametri, grazie all’utilizzo delle tecnologie del live electronics, Nono intende mettere in crisi la mono dimensionalità dell’esperienza acustica tradizionale, alla ricerca di una multilateralità in grado di aprire ad un ascolto polisemico, in costante divenire. Secondo la nuova concezione noniana non si dà conoscenza del mondo, dell’alterità, se non attraverso l’ascolto. L’intervento si propone di evidenziare la genesi e lo sviluppo di tale attenzione nei confronti dello status e delle potenzialità dell’ascolto. Tramite l’analisi e la comparazione di scritti e composizioni, con particolare riferimento al Prometeo, si ripercorreranno i passaggi di quel percorso che portò Luigi Nono a riconfigurare la propria poetica attorno al nucleo: Ascolto – Silenzio – Possibile.

 


 

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Marco Giuliani

Le immagini musicali nei frontespizi delle edizioni collettive di polifonia/monodia vocale in italiano

L’iconografia musicale si è curata poco dei frontespizi dei libri di polifonia del 5/600; in particolare è mancato uno sguardo d'insieme del fenomeno, sia in senso cronologico, sia in un'ottica di disamina critica delle varie simbologie, degli strumenti, dei personaggi, eventi e istituzioni che vi si trovano. Limitando il campo di indagine alle sole raccolte collettive in lingua italiana (cioè alla revisione, curata dallo scrivente, della obsoleta sezione ‘collettiva’ del Vecchio Vogel) - un segmento importante del repertorio di polifonia in italiano di quasi 400 edizioni, di cui una sessantina non repertoriate) si intende qui presentare ed illustrare il catalogo di tali immagini, in 60 schede, ricavato dalle edizioni superstiti esaminate, comprese fra il 1530 e il 1665. Sono molti i soggetti di interesse musicale che appaiono in apertura dei vari libri collettivi ed una storia ‘evolutiva’ dell'immaginario-imaginifico musicale può essere avviata anche solo esaminando e comparando tali soggetti. Se ne intende dare un primo resoconto, nell'ipotesi di una storia della musica in parte letta e scritta attraverso il linguaggio delle immagini nei frontespizi in questione. Correda la presente ricerca un indice dei Personaggi e degli Eventi musicali (175) e un indice degli Strumenti musicali (105) nonché un catalogo multimediale informatizzato per la visualizzazione delle schede e dei soggetti.

 


 

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Federico Gon

«Fu compatita ma non fece quell’incontro che si credeva»: la prima fortuna del Matrimonio segreto in Italia (1793-1800)

Il matrimonio segreto di Giovanni Bertati e Domenico Cimarosa è, se si escludono i capolavori del teatro mozartiano, l’unica opera del Settecento a non essere mai uscita completamente dal repertorio sin dalla prima rappresentazione (Vienna, Burgtheater, 7 febbraio 1792). Lavoro ammirato da generazioni di compositori e letterati (tra i quali Rossini, Schumann, Verdi, Goethe, Stendhal, D’Annunzio) ebbe un’indubbia fortuna europea sin dai primissimi anni, annoverando allestimenti in centri importanti (Parigi, Londra – con la supervisione di Da Ponte – Lisbona, Madrid, Copenhagen, etc.) e immediate traduzioni in svariate lingue (francese, inglese, tedesco – con la probabile supervisione di Goethe -  spagnolo, danese, svedese e olandese). Com’è noto, nel 1793 lo stesso Cimarosa ne curò una versione per il Teatro de’ Fiorentini di Napoli (che, leggenda vuole, sia stata replicata la sera stessa in un’esecuzione privata per il sovrano, dato lo strepitoso successo) rimaneggiando per l’occasione la partitura in più punti, grazie anche a nuove porzioni di libretto appositamente scritte. Ciò ha comportato che in Italia - a differenza di quanto accaduto nel resto d’Europa, in cui le rappresentazioni furono fedeli al testo della prima viennese - abbiano convissuto due differenti versioni del Matrimonio segreto, facenti capo rispettivamente alla prima del 1792 ed alla ripresa napoletana del 1793. Le problematiche filologiche relative alle differenze nei manoscritti delle due versioni sono oggetto di studio del progetto di realizzazione dell’edizione critica della partitura, attualmente in corso d’opera in seno all’Università di Vienna, a cura del sottoscritto e di Guido Olivieri, recentemente esplicate in un saggio scritto a quattro mani in corso di pubblicazione. Il presente contributo, partendo dagli imprescindibili studi già condotti da studiosi quali di Francesco Degrada, Anthony DelDonna, Francesco Cotticelli, Anna Mondolfi Bossarelli, Hans-Berthold Dietz, Diana Blichmann e Takashi Yamada, si propone invece di sondare la reale fortuna di quest’ opera sul suolo italiano nei primissimi anni successivi al debutto (1792-1800) attraverso un’analisi dei libretti relativi agli allestimenti più importanti, per far luce su alcuni aspetti ancora poco chiari riguardanti la ricezione in sé e confrontando i vari adattamenti e le modifiche via via operate sul testo originale. O, meglio, “sui testi originali”, giacché i libretti, come le versioni, sono due, e ben distinti.

 


 

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Irene Guadamuro García

La editorial Ricordi y su presencia en España: la administración de los derechos sobre sus obras a través de la correspondencia con sus representantes

A partir de la segunda mitad del siglo XIX el Gobierno de España comienza a tomar mayor conciencia de la necesidad de proteger los derechos de autor de las obras musicales también en el ámbito internacional a través de la firma de tratados con diferentes países con la finalidad de garantizar una protección recíprocas. Italia será uno de los primeros interesados en firmar dichos acuerdos puesto que su repertorio operístico era el principal motor de la industria teatral de la época. Pese al reconocimiento a nivel oficial de los derechos de autor entre ambos países, era necesario establecer una red de representantes que se encargara del cobro de derechos en los teatros donde se representaban las óperas. Para ello, la casa editorial Ricordi de Milán, poseedora de los derechos sobre las obras más representadas de este repertorio, comenzó a negociar con distintos editores musicales su representación en España para hacerse cargo de esta labor. Entre las últimas décadas del siglo XIX y primeras del XX contó con diferentes representantes, entre ellos el editor y empresario Andrés Vidal y Llimona (1844-1912), quien obtuvo tal cargo tras un pleito ocurrido en 1894 en el que se disputó la representación en exclusiva de esta casa editorial. Posteriormente, la creación en España de la Sociedad de Autores Españoles (SAE) en 1899, supondría un hito en la historia de la gestión de derechos musicales asumiendo la representación en España de las principales casas editoriales extranjeras, entre las que se encontraba Ricordi. La presente comunicación plantea un análisis de las relaciones entre ambos países respecto al cobro de los derechos de autor del repertorio operístico que permita conocer las relaciones existentes en la época entre la editorial Ricordi y sus representantes españoles, así como la problemática existente respecto a este tema. Para ello, se han consultado fondos inéditos del Archivio Storico Ricordi de Milán, donde ha podido revisarse toda la correspondencia conservada entre la casa editorial y sus agentes en España. Con el fin de abordar el tema objeto de estudio desde la perspectiva de ambos países, se ha revisado asimismo la documentación que se conserva en el Archivo Vidal Llimona y Boceta en Madrid, así como diversa documentación del Teatro real depositada en el Archivo General de la Administración de Alcalá de Henares. Se ha realizado igualmente una búsqueda hemerográfica tanto en prensa general como en revistas especializadas en música y espectáculos, y se han consultado las actas y boletines oficiales de la SAE conservados en el Centro de Documentación y Archivo de la Sociedad General de Autores y Editores en Madrid.

 


 

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Sarah M. Iacono

Tra sovrani, prelati e patrizi: su alcune fonti paisielliane a Lecce

«Bisogna pur considerare che qui [...] il lavoro di copista dà impiego a tanta gente e [...] questo commercio è più attivo e vantaggioso di ogni altro». Così nel 1770 scriveva Charles Burney, a riprova della fiorente attività degli atelier di copisti diffusi nei grandi centri di produzione musicale della seconda metà del xviii secolo. Soprattutto per il repertorio vocale e per brevi pezzi strumentali, i manoscritti continuavano a essere tra i principali mezzi di diffusione, adattabili com’erano alle esigenze degli imprenditori che sovrintendevano alla loro redazione e vendita, e alle preferenze dei numerosi, colti acquirenti. A Lecce, la “piccola Napoli” della Provincia di Terra d’Otranto, la costruzione di un teatro stabile nel 1759 amplificò il già vivo fenomeno del collezionismo tra i notabili della città: dilettanti di musica, essi seguivano le novità dei cartelloni locali, romani e partenopei, e si procuravano copie dei pezzi più in voga. Le fonti che danno argomento a questo contributo rendono testimonianza di una spiccata attenzione riservata a Giovanni Paisiello: le sue opere, già presenti nelle prime stagioni del Teatro Nuovo leccese, sopravvivono nei fascicoli, manoscritti e a stampa, delle raccolte gentilizie salentine. Attualmente conservate nei principali fondi musicali cittadini, la loro disamina, insieme con l’indagine sulle cronache e i documenti dell’epoca, ha permesso di focalizzare degli aspetti di controversa interpretazione che riguardano, ad esempio, la cronologia di alcune esecuzioni, e di delineare più chiaramente gli ambiti culturali in cui esse sono giunte sino a noi, in un tragitto che abbraccia Napoli e l’Europa.

 


 

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Armando Ianniello

Musica di scena, musica per film e opera lirica: il caso della Napoli milionaria di Eduardo de Filippo con musiche di Nino Rota

Napoli milionaria è un testo che attraversa diverse dimensioni performative: si tratta infatti di un’opera che, nota al pubblico come dramma teatrale, nel 1950 arriva nelle sale cinematografiche per poi approdare in televisione, nel 1962, attraverso la ripresa della versione teatrale per il “nuovo mezzo”. Trascorrono circa trent’anni tra la messa in scena del dramma teatrale al Teatro San Carlo, 1945, e il debutto dell’opera lirica Napoli milionaria! al Festival dei due Mondi di Spoleto del 1977. L’obiettivo dell’intervento sarà osservare analiticamente, mediante l’impiego di strumenti filologici, eventuali concordanze o discrepanze risultanti dal confronto della partitura per il film con le musiche di scena presenti sia nella versione televisiva che teatrale, e, infine, con la partitura operistica. Attraverso una collatio dei testimoni manoscritti conservati nell’Archivio Nino Rota, presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia con i documenti audiovisivi presenti nelle teche RAI di Milano, Roma e Torino tra i quali vi è la versione restaurata della prima di Napoli milionaria! opera lirica, rappresentata nel 1977 al Festival dei due mondi di Spoleto e trasmessa per l’emittente televisiva Rai5 il 2 novembre 2014. La componente analitica verrà concepita in un primo momento considerando gli aspetti prettamente musicali delle composizioni prese in esame e successivamente l’attenzione verterà sulla valenza della musica in relazione con l’aspetto performativo. Lo scopo del lavoro è volto a rispondere agli interrogativi relativi alla componente dell’autocitazione o prestito interno presenti nello stile compositivo di Rota, così da mettere in luce l’aspetto geniale nell’utilizzare lo stesso materiale musicale per opere destinate a situazioni performative diverse. Lo studio filologico degli autografi musicali di Napoli milionaria! può dimostrare che Rota utilizzi l’espediente dell’autocitazione in maniera non solo intenzionale, ma con un preciso progetto compositivo che si richiama alla prassi artistica del “collage”. Nella sua estetica, infatti, non è la novità dei materiali a determinare la qualità di una composizione, bensì l’atto artistico risiede nel lavoro di “montaggio” e rielaborazione che l’autore ne compie.

 


 

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Alberto Iesuè

Musica e musicisti nel “deprecato” ventennio

Negli ultimi decenni non sono stati pochi gli studi sul ventennio musicale fra il 1920 e il 1940, circa. Le varie analisi sono state in gran parte storiche, come quelle volte a "scoprire" i compositori favorevoli o contrari alla dottrina fascista. Ho avuto sempre molti dubbi su come discernere una sinfonia “fascista” e come una “liberale”. Al proposito molti anni fa scrissi un appunto per cercare la differenza fra un si bemolle dittatoriale da uno democratico. Ciò anche se un titolo su una partitura musicale dichiarasse “Avanti squadristi”, come distinguere i passaggi musicali favorevoli al Duce dagli altri? Certo che il testo di un melodramma, di una romanza, o di quant’altro sia accompagnato da parole può fornire precise indicazioni sulle personali convinzioni dell’autore. L’analisi che noi ci proponiamo è quella vuoi di conferire lo stesso sentimento al si bemolle, vuoi di trar fuori dall’oblio musiche coperte dalla polvere delle biblioteche – che siano sinfoniche, da camera, operistiche e quel che volete – e di conseguenza rivalutare qualche compositore che, al di là delle convinzioni politiche, meriti adeguati riconoscimenti.

 


 

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Tinaya Iron

Giovanni Battista Sammartini as a Springboard for Franz Joseph Haydn: Sammartini’s Symphony in F Major (J-C 32) and Joseph Haydn’s Symphony in D Major (Hob. I:1)

Controversy has evolved surrounding the question of Giovanni Battista Sammartini’s influence on Joseph Haydn. Both composers played critical roles in the development of the symphony and sonata form. Despite Haydn claiming complete originality in his works according to his biographer Georg August von Griesinger (Griesinger, Biographische Notizen über Joseph Haydn, Leipzig, 1810), there are scholars, including Bathia Churgin, who claim that the influence of Sammartini is obvious in the works of Haydn (Churgin, Sammartini, New Grove, 2001). This controversy is manifested within the New Grove Dictionary of Music and Musicians. In the entry on Sammartini, Churgin reiterates that his influence on Haydn is obvious. On the other hand, James Webster, in his entry on Haydn (Webster, “Haydn,” New Grove, 2001, p. 192) states that Haydn was completely original. According to Griesinger, Haydn adamantly denies any influence by Sammartini on his work. In fact, according to biographies by Carpani (see his Le Haydine, Milan, 1812, pp. 62-63) and Griesinger, Haydn heard the music of Sammartini and regarded it as inferior. This controversy in the literature has prompted a re-examination of Haydn’s relationship to Sammartini ― a relationship which will be the focus of a detailed consideration of Haydn’s Symphony in D Major (Hob. I:1) and Sammartini’s Symphony in F Major (J-C 32). Through analysis of the structure, harmonic organization, and instrumentation of the respective pieces, a link is established between the writings of the two men. It appears that the simple, straightforward structure and style used by Sammartini serves as a foundation upon which Haydn later builds his musical compositions. For example, the simplicity of Sammartini’s tonal language provides a starting point for the explorations of Haydn. Sammartini’s tonal language focuses on the tonic-dominant relationship, while Haydn progresses beyond the tonic-dominant relationship with far more varied harmonic language. Without the foundation laid by Sammartini, Haydn would not have become as great and as respected of a composer as he did. Undoubtedly, Sammartini paved the way for Haydn’s success.

 


 

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Carolin Krahn

«[…] wie das eben durch ganz Italien Sitte ist!». The sophistication of applause, or what Johann Friedrich Rochlitz wanted German audiences to learn from their Italian fellows

In June 1809, the prolific German music critic Johann Friedrich Rochlitz of Leipzig published a series of two articles entitled “Applause in Italy and Applause in Germany” in the Allgemeine musikalische Zeitung. These articles shed light on two key motifs in the body of Rochlitz’s manifold writings: (1) the audience as an aesthetic channel to the proper development of musical taste in public musical life around 1800 and (2) the comparative approach to Italian and German musical cultures of the time. Rochlitz combined the two aspects in the wake of the emerging “German Tonkunst” concept through an in-depth analysis of the sophistication he so admired as “typically Italian applause culture,” eventually suggesting his German readers to adopt it. Indeed, Rochlitz’s excitement about questions concerning the impact of audiences on musicians, composers, and  music history, was inspired by his efforts for a systematic education of his audience. In confronting the German-speaking public with respect to their Italian counterparts, Rochlitz sought to foster high quality music in the German-speaking lands and actually outplay Italian musical culture after decades of inferiority in opera. Against this background my paper will first illustrate how Rochlitz constructed his texts for pedagogic purposes while sketching out details about contemporary customs in musical Italy as they circulated in German media. Moreover, I will discuss the discrepancies between dilettantes and connoisseurs as these notions impact Rochlitz’s elaborations on applause culture, embedding these ideas into a broader debate on professionalism in the arts. Drawing from additional sources such as theoretical and fictional writings by Rochlitz, Goethe, Schiller and others, I finally place Rochlitz’s two publications on the sophistication of Italian applause culture into a broader intellectual framework. I will demonstrate how Rochlitz’s articles can be read as a manifesto for the elevation of musical taste in Germany, all the while relying upon the engagement with contemporary Italy. My paper complements the vast body of transcultural studies on the relationship of Italian and Austro-German music in the nineteenth century insofar as it (1) reaches beyond the (dominating) realm of opera studies and (2) adds a perspective based on the analysis of published discourse focusing on a leading musical historiographer in Germany. This project ties in with existing research undertaken by scholars such as Luca Aversano, Klaus Hortschansky, Gundula Kreuzer, and Sabine Meine.

 


 

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Nicola Lucarelli

Tecnica flautistica e stile galante nel Versuch di Johann Joachim Quantz

Il Trattato sul Flauto di J. J. Quantz, uscito per la prima volta nel 1752 in tedesco, ma quasi contemporaneamente anche in traduzione francese, a detta della maggior parte degli studiosi non si presenta solamente come un testo pratico per l’insegnamento dello strumento, ma anche e soprattutto come un testo fondamentale per l’apprendimento dell’estetica musicale di quel periodo di passaggio che viene solitamente designato come “stile galante”. L’autore, in effetti, fu un polistrumentista e il suo approdo al flauto avvenne in età matura, scoprendo le possibilità offerte da questo strumento, che aveva subito negli ultimi anni una notevole evoluzione tecnologica (caratteristica principale era la sua “portabilità”, ma anche la sua emissione “dolce” assolutamente in linea con l’estetica “galante”). Queste migliorie tecniche non avevano snaturato le sue caratteristiche di strumento dal suono non invadente ed “intimo” ed anzi il permanere di “difficoltà” tecnico-esecutive si rivelava quasi un elemento positivo nella collocazione dello strumento in una fascia elitaria rispetto al più “facile” flauto diritto. Anche il nostro autore tedesco si era cimentato in modifiche tecniche allo strumento e la sua opera di diffusione dello stesso fu così importante fino al punto che il flauto divenne uno strumento “regale” (suo allievo fu Federico di Prussia). Quello che è sfuggito a molti studiosi, invece, a parer mio, è il fatto che Quantz, anche in una pagina estremamente tecnica del suo trattato (quella dedicata all’embouchure) dedichi un grande spazio alla polemica contro Vaucanson, il costruttore di automi che aveva creato un suonatore di flauto, che riusciva a suonare alcuni brani attraverso un complesso meccanismo meccanico. Questa polemica sembra avere più motivazioni estetiche che tecniche, in effetti se si va leggere la relazione di Vaucanson alla Reale Accademia, si può vedere che le differenze fra quello che scrivono i due autori sono molto sfumate, ma quello che appare chiaramente in Quantz è la difesa del bel suono, della raffinatezza esecutiva, - caratteristiche tipiche dello stile galante - che aveva trovato nel flauto traverso il “suo” strumento d’elezione. Cercherò quindi di dimostrare, anche tenendo conto dei trattati sullo strumento precedentemente pubblicati (Corrette, Hotteterre) e con una analisi della tecnica delle ottave (quella oggetto della polemica con Quantz che contesta il fatto che si debba impiegare una maggiore quantità di fiato, anche se ammette che si debba aumentare il sostegno anche con l’aiuto della posizione della bocca sul flauto o con una rotazione dello stesso) come si differenziano le due posizioni del trattatista tedesco e dello scienziato francese (che comunque aveva svolto una ricerca scientifica di alto livello sull’emissione del suono sul flauto) e come la polemica innescata da Quantz sia stata, alla fine, un mezzo per riaffermare la sua estetica galante basata sull’aristocraticità del musicista e sulla difesa della personalità contro l’impersonalità, che costituisce il “Leitmotiv” dell’intero trattato.

 


 

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Michael Lupo

Hearing Resonances in Luigi Nono’s Risonanze erranti. Liederzyklus a Massimo Cacciari

From the labeling of his last “azione scenica” Prometeo as a tragedia dell’ascolto to numerous assertions made in program notes, interviews, and letters, it is clear that Venetian composer Luigi Nono (1924–90) sought musical techniques that could refine the act of listening. This is particularly evident in his late electroacoustic compositions, which have received considerably less scholarly attention than his more overtly political output of the 1950s–60s. Perhaps best characterized as performance events, these late works typically situate the audience in the center of electronically dispersed sounds and include features that challenge traditional modes of listening, including frequent and protracted fermate, microtonal inflections, and extended techniques. Assuming that these features challenge normative listening practices, how can the listener make sense of them in accordance with Nono’s objectives? In posing some possible answers to the above question, this paper presents analyses of episodes from Nono’s Risonanze erranti. Liederzyklus a Massimo Cacciari (1986). Specifically, I select episodes that exhibit phrase-like tendencies in their construction, and as such could be understood as examples of what theorist Patricia Howland has called integrated parametric structures (IPSs). Howland, drawing on the work of Christopher Hasty and James Tenney, defines IPSs as audibly cohesive units capable of being combined to create larger structures. This theoretical lens provides a listener-centric model consistent with Nono’s aesthetic prerogative by identifying secondary parameters—temporal density, dynamics, register, and timbre—that articulate perceptually meaningful formal units. To these parameters I add space, which, given Nono’s use of electronically created spatial dispersion, is an essential component of Risonanze. Written for Susanne Otto (mezzosoprano), Roberto Fabbriciani (flute), Giancarlo Schiaffini (tuba), and percussion, Risonanze’s texts are drawn from Herman Melville’s Battle-Pieces, Ingeborg Bachmann’s poem Keine Delikatessen, and three Franco-Flemish chansons. The origins of this understudied work go back to Nono’s reflection on individuals and techniques from his past. Although I focus on what is available to the listener, knowledge of Nono’s conceptualization of history, as well as reference to the score, will inform how we can hear the passages under inspection. In the end, I demonstrate how Nono’s use of different IPSs for selected stand-out episodes reflects the resonances of his lost teacher-friends, most notably in the setting of texts that keep alive the spirit of Bruno Maderna and Ingeborg Bachmann.

 


 

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Marta Mancini

Virginia Mariani, una Compositrice vissuta fra Ottocento e Novecento. La vita e l’opera

Virginia Mariani è stata una delle più importanti compositrici nel panorama musicale fra ‘800 e ‘900.  Diplomatasi a Pesaro nella prestigiosa scuola di Carlo Pedrotti, primo direttore dell’allora Liceo musicale “G. Rossini”, ha conseguito brillantemente il diploma magistrale in composizione, oltre che in pianoforte, arpa e canto. Come strumentista ha al suo attivo numerose esibizioni da solista ed in formazioni cameristiche. Virginia Mariani è nota soprattutto per aver scritto molte pagine di musica, fra cui un buon numero di liriche per canto e pianoforte, brani corali ed opere strumentali, soprattutto pianistiche. E’ autrice dell’opera Dal sogno alla vita, melodramma in tre atti su testo di Fulvio Fulgonio, rappresentato con successo al Civico di Vercelli, al Politeama di Genova, allo Storchi di Modena. Ha avuto il ruolo di direttrice d’orchestra nella rappresentazione genovese dell’opera nel 1898, ottenendo lusinghieri successi di pubblico e critica. Ha inoltre pubblicato liriche, opere didattiche, canzoni per bambini, romanze da camera, inni ed altro, per noti editori musicali fra cui Ricordi. Alcune liriche sono su testi Wolfgang von Goethe, Heinrich Heine, Friedrich Schiller, Joseph Freiherr von Eichendorff, Lina Schwarz. La maggior parte delle sue pagine musicali è ancora inedita ed in attesa di una ricognizione. La biblioteca del conservatorio “G. Rossini” di Pesaro conserva oltre ai molti brani manoscritti autografi, il pregiato spartito manoscritto dell’opera Dal sogno alla vita. Il figlio della Mariani, Luigi Campolieti, è stato un noto pianista e maestro sostituto dei teatri parigini, collaboratore di Paul Dukas. Negli anni ‘70 ha lasciato alla biblioteca del conservatorio di Pesaro una ricca collezione di spartiti, partiture (fra cui le opere della Mariani), un pianoforte ed altri strumenti. Virginia Mariani è una musicista di notevole spessore di cui si intende ricostruire la valenza artistica, la biografia e la bibliografia attraverso fonti documentarie, cronache teatrali, ricerche d’archivio e documenti vari. La ricostruzione filologica tiene conto anche di incontri e testimonianze dei famigliari discendenti con cui sono stati presi contatti. Attualmente è in fase di elaborazione la ricognizione, descrizione, analisi e pubblica esecuzione dei manoscritti musicali reperiti (circa 60). Il fine della ricerca è di arricchire conoscenza di Virginia Mariani, attualmente davvero limitata, dovuta allo stato attuale esclusivamente alle brevissime note di wikipedia in lingua tedesca (de.wikipedia.org/wiki/Virginia_Mariani_Campolieti) ed inglese (en.wikipedia.org/wiki/Virginia_Mariani_Campolieti), ed a qualche scarna e talvolta distorta ed erronea voce di enciclopedia.

 


 

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Katiuscia Manetta

Il canto popolare nel Dissoluto assolto di Azio Corghi: simbologie e significati

La ricchezza della cultura popolare italiana, con il suo patrimonio di testi e melodie, si è sempre rivelata una preziosa fonte di ispirazione per le composizioni di Azio Corghi fin dagli esordi. In una delle sue opere più recenti, il Dissoluto assolto (2006), i canti popolari italiani risultano elementi fondamentali per la realizzazione del corredo tematico. Nel ventaglio degli undici temi principali della partitura, infatti, quattro sono di provenienza etnica: tre sono costituiti da porzioni di canti di origine emiliano-romagnola (canti alla boara, melodie infantili, canzoni a ballo), zona nella quale affondano le radici del compositore per via paterna; uno deriva invece da un canto funebre di tradizione siciliana. Questo materiale tematico, tuttavia, non è nuovo per Corghi, che già in passato era ricorso ai medesimi canti in composizioni, all’apparenza, eterogenee: il balletto per ottetto vocale e oboe Mazapegul, la pagina orchestrale Rapsodia in Re (D) e la composizione cameristica A’nsunnari. Quali motivazioni hanno spinto il compositore a impiegare più volte nel corso della propria carriera le stesse intonazioni folcloriche? Scelta dettata da un particolare amore per quei canti, o dalla necessità di sottolineare con ciò aspetti particolarmente significativi della propria poetica? Attualmente le conoscenze su questo specifico aspetto della drammaturgia corghiana sono limitate ad alcuni contributi generali sull’opera, firmati da Raffaele Mellace. La presente relazione intende far luce sui diversi significati assunti dal reimpiego di questi canti popolari, evidenziando i rapporti intertestuali che collegano le opere citate al Dissoluto assolto.

 


 

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Ana Martínez Hernández

The biographies of Luigi Boccherini: A comparative analysis

Luigi Boccherini has been, in the last fifteen years, the object of many studies. Plenty of articles and books in relation with the composer have come to light, some of which are biographies that have come up with new information and documents that contain many myths and errors maintained through time. Biographers, both current and former, have undertaken the task in different contexts, with different interests and means, thereby producing different outcomes. In addition, many of them, have based themselves on previous authors without considering their authenticity. The variety and diversity of biographies in existence provide a scattered and confusing perspective on the facts of the composer’s life. This research compiles and compares different biographies with the aim of obtaining a general view of the certainties, errors and inaccuracies that they contain. In the musicological field, this research will be a reference for those who want to know which are the most representative biographies, depending on its intended goals. Also, it will help put the composer in its place and discard the myths that have been maintained for centuries. In the field of performance, following the current historical approach, this research will guide the musician in his search of the most suitable biography, giving him a reliable idea of the situation of the composer at the moment in which he created the score.

 


 

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Alessandro Mastropietro

Questioni compositive, simbologiche e analitiche nel ciclo Descrizione del corpo di Domenico Guaccero

Tra il 1972 e il 1977, Domenico Guaccero (1927-1984) scrive cinque pezzi (su nove progettati) di un ciclo dal titolo Descrizione del corpo: i titoli sono solo tre (Ajna, Kardia, Luz) poiché un terno di brani accomunato da un titolo può essere eseguibile insieme sovrapponendo tutti i tre strati con medesima titolazione, o in combinazioni di due strati su tre, oltre naturalmente alla possibile esecuzione di un singolo strato-pezzo. I cinque lavori ultimati sono un Luz per strumento grave e fondo elettronico (1973), un Ajna per archi con percussioni (1977) e tutti i tre strati-pezzi di Kardia (1972, per 12 archi; 1973, per 5 fiati; 1976, per 8 voci). I titoli si riferiscono a plessi del corpo umano secondo quelle che Guaccero definisce lingue di tre ‘tradizioni sacre’: «AJNA è il termine usato [in hindi] per designare il ‘chacra’ che si trova al centro della fronte; KARDIA è il termine greco che designa la regione del cuore; LUZ è il termine ebraico che designa la regione coccigea.» Sul piano delle strategie compositive, ogni parola individua caratteristiche timbriche o di comportamento del suono, per cui ciascuno strato ne è segnato da una portante (il titolo del brano) e da una secondaria (una delle tre parole-titolo). Il ciclo è rappresentativo della produzione musicale di Guaccero sotto diversi aspetti: 1) il permanere, anche in una fase di profonda sperimentazione sul suono e di adesione a una poetica ‘informale’, di un pensiero combinatorio-generativo, essendo qui il carattere di ogni pezzo-strato determinato di fatto da una tabella ricorsiva a tre elementi. 2) l’eredità di una concezione aperta dell’opera, la cui identità è qui simile – salvo una costruzione più definita di strutture e relazioni – ai ‘plurimi’ musicali e anche artistici praticati intorno al 1960; 3) la libertà e la specificità delle soluzioni semiografiche, che variano dalla sovrapposizione più o meno coordinata di partiture-strato in notazione allargata ma tradizionale, a una semiografia grafico-simbolica più fortemente aleatoria; 4) il proiettarsi, nelle strutture musicali, di contenuti simbolico-esoterici, come esplicito in altri lavori degli anni ‘70 (Rot, un’azione danzata basata sui tre colori del processo alchemico, 1970-72; Rota, un lavoro per arpa basato sulla serie dei 22 arcani maggiori dei tarocchi, 1979). Il tentativo, che rimonta già al Guaccero del decennio precedente, sembra quello di addivenire a una nuova sintesi umanistica, la quale – indagando i nessi tra corporeo e spirituale – ha forse qui il suo presupposto nella psicologia degli archetipi junghiana, ma anticipa pure temi della teoria filosofico-cognitiva dell’Embodied Mind. Descrizione del corpo verrà esaminato col supporto di analisi e ascolti e con la discussione di appunti compositivi autografi conservati ora nel Fondo Domenico Guaccero della Fondazione Cini – Istituto per la Musica, dai quali emerge l’ipotesi di realizzare anche attraverso la spazialità del suono le strutture simboliche che sottostanno all’impianto del ciclo.

 


 

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Lorenzo Mattei

Paisiello in scena: aspetti di drammaturgia musicale

Il mio intervento si propone di prendere in esame le opere di Paisiello rappresentate in tempi moderni, mettendo a frutto la decennale esperienza di direttore artistico del «Giovanni Paiisello Festival» di Taranto. La finalità dell’indagine è molteplice: da un lato si vuole verificare se i connotati stilistici e melodrammaturgici emersi delle analisi musicologiche – condotte sui materiali cartacei (libretti e partiture) – vengano confermati o meno dal vivo ascolto delle opere rappresentate; dall’altro s’intende capire le ragioni, ora estetiche ora meramente produttive, che hanno portato a ripescare alcuni titoli e non altri. Si discuterà poi sulle modalità con cui le opere di Paisiello sono state rimesse in scena negli ultimi quindici anni e sulle scelte musicali e registiche che hanno segnato queste riprese.

 


 

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Donatella Melini

Gli strumenti musicali raffigurati nella pala Madonna dell’Umiltà e angeli musicanti (1450-1455) di Benedetto Bembo: un interessante caso di prime attestazioni visive

La pala dipinta da Benedetto Bembo tra il 1450 e il 1455 è oggi conservata presso il Museo Amedeo di La Spezia (inv.230) e rappresenta un interessante caso iconografico e organologico del quale mi occupo sin dalla mia tesi per il Master Avanzato di II livello in "Filologia dei testi musicali e dei testi letterari medievali e moderni” discussa presso il Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali di Cremona-Pavia nel 2002. La sontuosa tavola mostra Maria Vergine seduta a terra in un prato rigoglioso pieno di fiori e piante simbolici, mentre con la mano destra sostiene il Bambin Gesù e con la sinistra un libro. A corona sono disposti sei angeli che suonano o accordano strumenti (liuti, arpa, clavicordo, salterio, ribeca a spatola) mentre su una nuvola altre sei angeli stanno eseguendo un canto da libro. Lo sfondo della tavola mostra un paesaggio montano con città turrite. La pala fu dipinta quasi certamente in ambito ferrarese da Benedetto, appartenente alla famosa famiglia milanese dei Bembo, del quale ci sono noti pochissimi lavori e documenti.

Oggetto della mia relazione sono in particolare due degli strumenti rappresentati: il clavicordo e la ribeca a spatola denominata da Benvenuto Disertori “ferrarese”. Entrambi gli strumenti, ben dettagliati, risultano essere dal punto di vista organologico, se non le prime in assoluto, tra le più antiche raffigurazioni di questi strumenti. Il clavicordo, infatti, è molto vicino a quello affrescato nella chiesa napoletana di San Giovanni in Carbonara da Perinetto da Benevento intorno alla metà del XV sec. così come la ribeca è pressoché sovrapponibile alla violetta di Santa Caterina de Vigri tutt’ora conservato come reliquia nel Monastero delle Clarisse di Bologna. Quali connessioni culturali e storiche sono ravvisabili tra gli strumenti bembeschi, l’affresco napoletano e lo strumento bolognese? È possibile trovare le tracce della committenza della pala? Benché, negli anni, la pala sia stata talvolta oggetto di studio dal punto di vista storico artistico la sua importanza negli studi organologici e iconografico-musicali è sempre rimasta, mio malgrado, in secondo piano e dunque la ripresa delle indagini in questi ambiti mi pare particolarmente significativa e auspicabile.

 


 

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Brigida Migliore

Musica contemporanea e oralità araba: la tecnica dell’“innesto” musicale nell’opera di Zad Moultaka

Durante il corso dei secoli, il linguaggio musicale è stato spesso arricchito con elementi estranei dalla sua grammatica tipica e, di conseguenza, esso ha intrapreso direzioni inaspettate e singolari ogniqualvolta i compositori hanno integrato innovazioni provenienti da altri contesti. Non si tratta dunque di voler seguire una “moda”, per un semplice interesse estetico, ma di una questione culturale che ogni volta dà vita a una creazione originale e autentica. Si vuole denominare questa operazione musicale “innesto” (il termine originale è “greffe” dal francese, che è molto più pregante e ricco di significati, rispetto alla sua traduzione italiana). Questo termine è preso in prestito dalle scienze, in particolare dalla botanica ed indica una tecnica di composizione musicale che mette insieme due entità (A e B) di origine e natura differenti, per dare vita ad un nuovo elemento (C), sintesi dei due e risultato dell’inserimento del secondo sul primo. Si tratta, dunque, di proliferazione, crescita, sviluppo. Ciò che realmente caratterizza questo tipo di operazione musicale è il modo in cui gli elementi attivi-partecipanti possano integrarsi e divenire quindi unitas così come una “tessitura”, una texture, un testo (d’altronde “l’etimologia di “testo” rinvia a quella di tessuto”- Barthes 1973). L’intento di questo studio è di focalizzarsi su un tipo di “innesto” musicale particolare: quello tra musica occidentale contemporanea e musica araba. Fin dai tempi antichi questi due universi musicali hanno potuto incontrarsi, confrontarsi e fondersi grazie anche all’intermediario Mediterraneo, teatro di processi di globalizzazione. Tale problematica è presa in considerazione nell’opera di Zad Moultaka, compositore libanese operante in Francia dagli anni ‘80. Legato alle sue radici dell’oralità araba ma, allo stesso tempo, formatosi secondo il rigore della teoria occidentale, il compositore attua una ricerca per trasferire alla sua musica la fusione dei due universi musicali, integrando i dati fondamentali della composizione contemporanea occidentale con i caratteri specifici della musica araba. In questo contesto un “innesto” musicale rappresenta un atto di conversione tra codici linguistici, una “trans-duzione”. Ma esso diventa altresì un mezzo per fare una “trans-musica”, cioè una musica che possa rimandare ad altre musiche, ad altri codici, altre situazioni culturali e di un avvicinamento degli stessi.

 


 

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Sergio Monferrini

La rappresentazione de La Floridea a Novara nel 1674

Stato attuale delle conoscenze: l’opera è stata oggetto di un volume di C. Lanfossi, Un’Opera per Elisabetta d’Inghilterra. La Regina Floridea (Milano 1670), edizione critica del libretto di Teodoro Barbò e della musica di Francesco Rossi, Ludovico Busca, Pietro Simone Agostini, che tratta in un capitolo anche la rappresentazione novarese.

La ricerca prende le mosse dal ritrovamento del contratto per la messa in scena dell’opera stipulato nel 1674 da Carlo de Borgia, per il conte di Melgar, governatore di Novara, con Antonio e Ascanio Lonati, impresari del Teatro ducale di Milano. Il documento indica con precisione le spese previste per la rappresentazione (palco, costumi, ecc.), i cantanti e i musicisti individuati, il periodo dello svolgimento e il numero delle repliche, dando anche un’altra serie di interessanti informazioni e consentendo di valutare i costi previsti e la somma concordata, sensibilmente ridotta rispetto alla richieste iniziali. Gli studi presso l’Archivio di Stato di Novara e presso l’Archivio Borromeo all’Isola Bella e la ricostruzione dei rapporti con il governatore di Milano, duca di Ossuna, permettono inoltre di definire meglio la presenza del conte di Melgar a Novara e comprendere i perché della scelta di far rappresentare nella città un’opera in musica. Il contratto fu stipulato con Ascanio Lonati e questo offre l’occasione di alcune ricerche sulla sua attività, prima col padre poi da solo, e del suo interessante legame con i fratelli Piantanida, impresari a Milano e Genova alla fine del Seicento e inizi del Settecento. Altre ricerche permettono anche di ricostruire genealogicamente la famiglia e la sua residenza milanese.

 


 

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Evan Moskowitz

Surrealism, Myth, and Ritual in Giacinto Scelsi’s Khoom (1962)

Since the early 1980s—but particularly since the infamous “caso Scelsi” which unfolded in 1989 in Il giornale della musica—scholars, composers, and critics have continued to struggle with the challenge of developing interpretive approaches to Giacinto Scelsi’s musical output. Although this challenge is certainly complicated by questions concerning labor and compositional authority, such complications have not precluded efforts to further situate this music as a corpus of works in the history of European art music. Gianmario Borio, for example, argued convincingly in 1992 for important affinities between Scelsi’s compositional aims and those of Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Alongside musical and archival analysis, there has also been a significant amount of effort devoted to the study of his aesthetic thought and literary output. Gregory Nathan Reish laid important groundwork in his 2001 doctoral dissertation, which constructed a chronology of Scelsi’s intellectual development around five of his central texts on musical aesthetics. Alessandra Montali’s analysis similarly divides his theoretical output into developmental phases, while also giving considerable attention to affinities between Scelsi’s poetry and the Italian Hermetic movement of the 1920s and 1930s. Of the scholarly literature that posits some specific relationship between musical and literary-aesthetic frameworks, the majority has focused on Scelsi’s later constellation of interests encompassing Theosophy, the writings of Rudolph Steiner, yoga, Hindu and Buddhist cosmology, and the aesthetic thought of Dany Rudhyar. This is entirely understandable, as it is really the only context in which a case for direct influence can be made. However, the impossibility of demonstrating direct influence need not inhibit us from suggesting other theoretical lenses where they seem appropriate. In this paper, I apply one such theoretical lens to Scelsi’s 1962 “song cycle,” Khoom, composed in collaboration with soprano Michiko Hirayama. I argue for a hearing of this work that is informed by a particular preoccupation with myth, ritual, and the sacred which characterized the Parisian avant-garde of the 1930s. Specifically, I draw on the writings of Georges Bataille to posit an interpretation of this work which departs from the frequent tendency to talk about Scelsi’s music in terms of its “meditative” qualities, and instead centers surrealist conceptions of violence and alterity. Through such an interpretive lens, I posit a quasi-programmatic hearing of this song cycle as an imagined ritual, uncovered from a mytho-historical past.

 


 

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Daniele Palma

«Alles zergeht, wie Dunst und Traum». Lotte Lehmann interprete della Marschallin

Lotte Lehmann (1888-1976) fu tra le maggiori interpreti wagneriane e straussiane del primo ‘900, imponendosi dapprima sulla scena viennese durante le sovrintendenze di Franz Schalk e dello stesso Strauss, quindi, dopo l’Anschluss, terminando la sua carriera oltre oceano e partecipando alla fondazione della Music Academy of the West di Santa Barbara, dove operò come docente di “interpretazione vocale”. Nella vita artistica della Lehmann si può individuare uno snodo fondamentale: l’interpretazione della Marschallin nel Rosenkavalier al Covent Garden, nel 1924, sotto la direzione di Bruno Walter. L’occasione diede effettivo inizio alla carriera internazionale della cantante e portò a battesimo un ruolo che ella avrebbe successivamente ripreso in oltre 150 recite attestate, divenendo, negli anni di Santa Barbara, uno dei canali preferenziali tramite cui la Lehmann trasmise alle nuove generazioni un’idea di teatro e di far musica precedente alle trasformazioni in atto nel periodo tra le due guerre, e ormai per lo più acquisite alla fine degli anni ‘50. Tra la Lehmann e la Marschallin si stabilì dunque un rapporto che operava in due direzioni differenti e contemporanee, legando tanto la cantante al ruolo quanto il ruolo alla sua interprete. Se i lavori sulla Lehmann si sono concentrati per lo più sugli aspetti biografici (Jefferson 1988; Glass 1988; Kater 2008; Brown 2012), poco spazio è stato dedicato ad uno studio sistematico delle sue qualità vocali, musicali e attoriali. Esse sono l’obiettivo di questo intervento: attraverso l’analisi del monologo “Da geht er hin” nelle registrazioni del 1933 (Wiener Staatsoper, Robert Heger) e del 1938 e 1939 (Met, Artur Bodanzky), oltre che di un video del 1961 in cui la cantante “dimostra” come il monologo vada recitato, si può ricostruire quali furono le caratteristiche di una Principessa di Werdemberg che fece la storia del personaggio – o, perlomeno, una sua parte imprescindibile. Di converso, il confronto tra i valori e le “tradizioni” culturali inglobati da von Hofmannsthal-Strauss in Marie Théreèse e il modello stabilito dalla Lehmann aiutano a far luce sulla fortuna e sulla recezione della cantante sulle scene europee e statunitensi.

 


 

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Nicoleta Paraschivescu

The Newly Discovered Second Book of Partimenti by Giovanni Paisiello

In this paper I will address Giovanni Paisiello’s (1740-1816) partimenti. Paisiello was one of the most famous musicians of the later 18th century. Between 1776 and 1783 he was maestro di cappella at the Imperial Court in Russia, where he was the keyboard teacher of Catherine’s daughter-in-law, the Grand Duchess Maria Feodorovna. His Regole per bene accompagnare il Partimento (St. Petersburg, 1782) is one of the first printed collections of partimenti and provides us with 45 partimenti of high artistic quality. The practice of partimento was an integral part of the training of musicians at the Conservatories in Naples. With the aid of partimenti, a pupil could gain the fluency that might later make it possible for him to obtain a position as a musician, whether in the service of the church, at a royal court, or in an opera house. Partimenti were also used as bass lines for the training of composers in so called disposizioni. Two recently discovered books with over 600 pages of disposizioni written in two and three voices contain 41 new partimenti by Paisiello. Until recently it was unknown that both these sources originated from Paisiello’s partimenti. This was because his name was not mentioned on the works. Apart from results of research into the content of the work, the name Taleyrand [sic] on the inside of the dust cover of the Disposizioni in three voices indicates that this manuscript was used by musicians in Paisiello’s circle. It is well known that Auguste Talleyrand was Paisiello’s student in Naples after his return from Russia. A chronological series of 29 partimento basses from the Regole printed in 1782 are to be found in the first volume of disposizioni à 2. At the end of the second volume with disposizioni à 3 there are four more partimenti from the Regole of 1782. Exercise books which have been handed down to us from the neapolitian schools show that the maestri often trained their pupils using their own partimenti. Therefore one can assume with a relatively high degree of certainty that partimenti were used by Paisiello himself as pedagogical aids in the instruction of his students. In my Lecture-Performance I would like to draw comparisions between the stylistic characteristics of the partimenti from the Regole of 1782 and the newly discovered partimenti and illustrate these through perfromance.

 


 

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Aurèlia Pessarrodona

Il ritorno di Figaro in patria: recezione e addatamenti di Il barbiere di Siviglia di Paisiello alle scene spagnole tra la fine del Settecento e inizio dell’Ottocento

La recezione dell’opera italiana nella Spagna settecentesca è stata per un lungo periodo di tempo un tabù, a causa di una visione della storia della musica molto nazionalista che condannava qualsiasi influenza straniera. Invece, in questo secolo la musicologia ha già aggiornato il suo posizionamento al rispetto, accettando senza complessi l’influenza italiana, soprattutto operistica. Sono eccellenti esempi gli studi di Rainer Klainertz, Elisabeth Le Guin, José Máximo Leza o Juan Pablo Fernández-Cortés. Ciò nonostante, ancora manca un studio più approfondito sulla recezione dell’opera italiana nella Spagna del cosidetto “lungo Settecento”, che non si limiti sia allo elenco delle opere rappresentate e loro interpreti ― cosa già fatta nei casi di Madrid, Barcellona, Cádiz, Valencia, ecc. ―, sia a far notare il fenomeno degli addatamenti di opere a zarzuelas. Questa mancanza è particolarmente importante nel caso del repertorio tipico del circuito europeo dell’ultimo terzo del secolo, di compositori della generazione di Cimarosa o Paisiello. In questo caso bisogna ancora studiare l’addatamento di questo repertorio a un nuovo contesto, con altri cantanti e altri gusti musicali: in altre parole, un approccio all’aspetto più pratico della drammaturgia musicale. In questo senso, Il barbiere di Siviglia di Paisiello offre la posibilità di approcciarci a come un’opera italiana di argomento spagnolo è ricevuta e addatata nella realità “patria”. Dalle prime rappresentazioni in 1787, a Madrid nel Teatro de los Caños del Peral e a Barcellona nel coliseo publico di questa città, diventò un vero hit in tutta Spagna, fino al punto di mettersi in scena in teatri privati dell’aristocrazia provinciale. Comunque fu necessario addatarla non solo ai nuovi cantanti, ma anche alla nuova (la vera e propria) realtà, soprattuto per quanto riguarda ai topici musicali e coreutici spagnoli. In questa relazione si farà un approccio a questa complessità attraverso i libretti e i manoscriti musicali conservati, studiati da un innovativo punto di vista dentro del contesto della prassis scenica.

 


 

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Domenico Prebenna

L’Annibale in Capua di Pietro Andrea Ziani: prolegomeni per l’edizione critica

La relazione intende offrire informazioni sul cantiere aperto intorno a L’Annibale in Capua di Pietro Andrea Ziani su libretto di Nicolò Beregan finalizzato alla realizzazione di un’edizione critica. La successione delle operazioni per l’allestimento dell’edizione – la recensio dei testimoni, il loro confronto sistematico e la ricostruzione testuale – ha restituito risultati e spunti interessanti sia sulla gestazione e gli esiti di questo melodramma che sulla fortuna e la ricezione. Il cospicuo numero di libretti ha posto diversi interrogativi e ha aperto nuovi scenari a riguardo delle partiture pervenute; esemplare, di tutto ciò, è la partitura conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (R.Vat Chigi Q.V.62) dimostratasi una fonte inesauribile di informazioni di carattere semiografico e storico-musicale, dato che consta di due stesure, per così dire, sovrapposte in quanto effettuate in due momenti storici diversi. Dato che, gli orientamenti filologici recenti tengono in grande considerazione il discorso relativo alla prassi, ho cercato di proporre una partitura moderna curata anche dal punto di vista grafico con l’obiettivo di poter rispondere, in futuro, anche alle esigenze dell’esecutore professionista e dello studente, oltre che a quelle del lettore e del dilettante. I dati emersi dalla collazione dei vari esemplari di libretti e partiture, e la loro organizzazione sistematica, hanno permesso la costruzione di uno stemma, lavoro sempre molto insidioso che ha, però, restituito un quadro più chiaro per ciò che concerne la fortuna e l’evoluzione di quest’opera ingiustamente finita nel dimenticatoio, la cui eco (dalla prima rappresentazione a Venezia nel 1661 sino a quella di Lucca del 1675) fu inversamente proporzionale alla sua gestazione (Ziani dichiara in più di un’occasione di aver scritto l’opera in cinque giorni).

L’Annibale in Capua apre, pertanto, intriganti prospettive finalizzate alla riscoperta di un autore poco studiato sistematicamente e che merita di ritornare ad occupare un ruolo che senza alcun dubbio gli va restituito nel panorama musicale europeo del secondo Seicento.

 


 

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Monika Prusak

Nella palude dell’avanguardia: il senso musicale del secondo Nonsense e del Sesto Non-Senso di Goffredo Petrassi

I Nonsense (1952) e il Sesto Non-Senso (1964) si inseriscono in modo del tutto bizzarro nel catalogo delle opere corali di Goffredo Petrassi ponendosi al centro dell’intero arco temporale dell’attività compositiva e della vita del compositore, come le uniche due composizioni vocali non legate al mondo spirituale o sacro. Dopo i Tre cori, lasciati volutamente inediti a causa delle «immaturità artistiche», Petrassi ha composto complessivamente sette opere per coro a cappella o coro con strumenti, a distanza di circa dieci anni tra l’uno e l’altro. Le uniche due composizioni che non seguono lo schema temporale sono proprio i Nonsense e il Sesto Non-Senso: il primo composto un anno dopo la stesura di Noche oscura, il secondo, invece, un anno prima dei Mottetti per la Passione. Le due composizioni si distinguono per titoli non legati al mondo mistico e religioso, che accentuano la loro scarsa appartenenza all’intera produzione corale. Considerando il momento storico della stesura dei Nonsense, il secondo dopoguerra, non sorprende l’interesse di Petrassi verso la dodecafonia che fino ad allora gli era preclusa, perché «privo dei primi elementi per esaminare questa musica» (Petrassi, 1976). Nonostante gli apprezzamenti per qualche singola opera e le prime sperimentazioni con la serie nelle proprie composizioni, Petrassi non è mai riuscito ad accettare del tutto la nuova “corrente”, definendo la tecnica dodecafonica poco autentica, costruita e non confacente con la sua idea di «umanesimo musicale». I Nonsense e il Sesto Non-Senso si piazzano, in tal senso, all’inizio e alla fine del breve percorso di avvicinamento alla tecnica seriale, costituendone una sorta di commento ironico. La presentazione prende in esame il secondo Nonsense e il Sesto Non-Senso di Petrassi come due esempi di commento ironico all’avvento della tecnica seriale in Italia e alla sperimentazione sonora contemporanea. Traendo spunto dallo studio del nonsense letterario inglese di Susan Stewart, propongo un’analisi inedita dei contenuti nonsense che, attraverso i testi tratti da The Book of Nonsense di Edward Lear, costituiscono il senso musicale delle composizioni di Petrassi.

 


 

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Alessandro Restelli

Strumenti musicali antichi come complementi d’arredo: il caso di Milano fra Ottocento e Novecento

Certamente il fenomeno del collezionismo di strumenti antichi fra Ottocento e Novecento è stato alimentato dall’interesse storicistico per questi oggetti in quanto cimeli di una cultura musicale passata, nonché testimonianze di una peculiare produzione artigianale di manufatti destinati all’uso sonoro. Tuttavia non può essere esclusa l’influenza di un altro tipo d’interesse, indipendente dal ruolo di reperti storico-musicali svolto dagli strumenti antichi. Un interesse nei loro confronti in qualità di oggetti d’antiquariato capaci di ricreare un arredamento storico, di suppellettili funzionali a un ornamento coerente degli ambienti domestici evocativi di un glorioso passato, di veri e propri complementi d’arredo. Tale influenza sembra emergere con chiarezza osservando il mercato antiquario di strumenti a Milano fra il 1881 e il 1953. Sebbene questi oggetti non siano per nulla numerosi fra i lotti venduti nelle aste cittadine, tenute per esempio da Giulio Sambon, Luigi Battistelli, Lino Pesaro o Alfredo Geri, sono battuti con molta frequenza come mobili o curiosità da vetrina e quasi mai come specifici esempi di natura musicale. Le poche descrizioni degli strumenti che compaiono nei cataloghi delle medesime aste, poi, in particolare le descrizioni di quelli a tastiera, spesso si soffermano sullo stile decorativo e sui materiali usati, in perfetta analogia con quanto avverrebbe per una consolle, una poltrona o un cassone. Infine, a Milano, non mancano tra gli antiquari e i collezionisti come Luigi Arrigoni o i fratelli Bagatti Valsecchi strumenti antichi riuniti esplicitamente in trofei da esibire appesi alle pareti di casa.

 


 

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Giulia Riili

Madrigalisti «a bottega»: Paolo Caracciolo, discepolo di Pietro Vinci

Di Paolo Caracciolo (1557c - post 1582) si sa ben poco, se non che è uno dei discepoli di Pietro Vinci (1535c - 1584), tra i più importanti esponenti della musica del sud Italia del XVI secolo. Nato probabilmente intorno al 1557, come il proprio maestro Caracciolo è di Nicosia, paese dell’entro-terra siciliano; e dalla Sicilia si trasferisce in Italia settentrionale, allo stesso modo di Vinci e di altri suoi conterranei (come Nicolò Toscano, Erasmo Marotta, Giovanni Pietro Flaccomio e Sigismondo d’India, che lavorerà anch’egli per il duca di Savoia). Di Caracciolo ci è pervenuta una sola raccolta di madrigali a cinque voci, in tre esemplari: il Primo libro, stampato a Venezia nel 1582, presso l’erede di Girolamo Scotto e dedicato (da Milano) a Carlo Emanuele I, duca di Savoia e principe di Piemonte. A questa si aggiungono quattro madrigali che figurano nelle raccolte di Pietro Vinci e di Orazio Scaletta, stampate tra il 1579 e il 1590. L’interesse che suscita il Primo Libro di Paolo Caracciolo risiede soprattutto nel suo prestarsi a esempio/tipo per un’analisi stilistica che verta, a un raggio più ampio, verso uno studio delle dinamiche di trasmissione del sapere musicale tra Cinque e Seicento, attraverso un approfondimento dei rapporti di discepolato, che fornisca l’occasione di indagine delle modalità in cui questa tendenza si generalizzasse nel periodo. Quanto un discepolo si discosta o segue il modello del proprio maestro? Come e quando si rintraccia nelle musiche un linguaggio comune che, distinguendo modelli e universalia da tratti peculiari che derivano dalla volontà del singolo compositore, possa determinarne l’appartenenza a uno stile? Con quale cadenza viene indicata la qualifica di discepolo? E in quali casi la menzione non compare pur essendo noi certi, per altre fonti, che si tratta di discepoli? Qual era la frequenza di madrigali di altri compositori in raccolte monografiche con un autore principale? Cambia nel corso del Cinquecento? Si tratta di una tematica più volte sfiorata dalle ricerche musicologiche, ma non ancora esplorata nel suo nucleo centrale, in particolare in merito all’ambito più ristretto del madrigale italiano. La raccolta di Caracciolo presenta un carattere eterogeneo nel suo insieme, come spesso poteva accadere all’epoca, soprattutto in relazione alla “funzione” che il Primo libro di madrigali rivestiva nella carriera del compositore, e nei suoi rapporti con i dedicatari. La varietà di questa raccolta può risultare preziosa in quanto tentativo di esplorazione delle possibilità creative di cui il compositore poteva disporre al momento della creazione del proprio prodotto artistico. Uno studio di queste possibilità permetterebbe un’osservazione angolare del fenomeno del madrigale italiano, dando dunque un ulteriore contributo alle ricerche già esistenti sulle tendenze compositive dell’epoca.

 


 

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Francesco Rocco Rossi

Franchino Gaffurio editore: le pratiche mensurali all’interno dei quattro Libroni del Duomo di Milano

Franchino Gaffurio (Lodi 1451-Milano 1522) è universalmente noto come uno dei massimi teorici musicali del tardo Quattrocento; attività, questa, che lo portò a indagare in tutti i campi del sapere musicale dell’epoca e, di conseguenza, a compilare alcuni tra i più importanti trattati teorici tra la fine del XV e l’inizio del XVI sec. Naturalmente oltre alla propria brillante (e spesso controversa) riflessione dottrinale, Gaffurio fu anche un compositore di prim’ordine e, dal 1484, Maestro della Cappella del Duomo di Milano. Fra i vari compiti connessi con questa funzione, si trovò a sovrintendere la compilazione dei quattro Libroni corali – ora conservati presso l’Archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano (I-Mfd 2269, 2268, 2267 e 2266) – al cui interno venne copiato il più importante repertorio sacro in uso presso la cattedrale milanese; i massimi polifonisti d’oltralpe, oltre allo stesso Gaffurio, sono, quindi rappresentati tra le chartae di questi importanti volumi. Alcuni di questi celebri compositori, però, erano state censurate spesso aspramente dal teorico lodigiano che nei propri scritti (in particolare nella Practica) ne aveva stigmatizzato talune pratiche mensurali giudicate non ortodosse se non addirittura scorrette. Valutando, quindi, che la progettazione dei Libroni comportò anche una sorta di ‘rimaneggiamento’ e adeguamento alle mutevoli esigenze liturgiche della Cattedrale, potrebbe insinuarsi il sospetto che Gaffurio sia intervenuto anche su alcune di queste composizioni modificandone l’assetto mensurale pur salvaguardando la sostanza ritmica. Col mio paper, quindi, intendo sottoporre a verifica il contenuto dei quattro Libroni innanzitutto per verificare se il ‘Gaffurio editore’ abbia agito nel rispetto della natura ritmica dei brani selezionati. In caso di risposta affermativa si potranno ricavare dei parametri mensurali (l’aderenza o meno ai principi formulati nella Practica) che potranno aiutare per una possibile attribuzione a Gaffurio di molti brani adespoti all’interno dei quattro volumi.

 


 

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Luciano Rossi

Le Ultime Sette Parole di Agonia di Nostro Signore Gesù Cristo. Riflessioni e indagini alla luce di nuove testimonianze

L’intervento si propone di indagare ed implementare le attuali conoscenze documentarie, storiche e musicologiche di una delle forme di meditazione in musica tra le più diffuse e praticate nella tradizione cattolica tra il XVII e il XX secolo, soprattutto alla luce delle nuove e più recenti acquisizioni di fonti d’archivio. Si tratta di composizioni destinate ad organici eterogenei, conosciute e titolate in forme diverse, dalla pratica delle “Tre Ore d’Agonia” alla forma più estesa come “Le Ultime Sette Parole di Agonia di Nostro Signore Gesù Cristo sulla Croce”. Spesso confuse con le omonime forme oratoriali e/o di devozione popolare, queste composizioni, affermatasi in Italia solo dalla fine del Settecento, costituiscono in realtà un genere ben definito, una pratica eucologica-musicale inseritasi stabilmente tra le funzioni religiose del Venerdì Santo, e considerata erroneamente per secoli come fosse una sua “liturgia” propria. Riproposte ancora oggi, pur se in modo non sistematico e separato dalla struttura celebrativa del giorno – recuperando spesso partiture sette-ottocentesche –, questa meditazione musicale nasce in Perù nel secondo Seicento, diffondendosi poi in America Latina, in Spagna, Francia e così in tutta Europa. Nel nostro paese, in particolare, sembra invece un fenomeno più tardo e che deve la sua affermazione alla diaspora dei gesuiti all’indomani della loro espulsione dal Perù (1767). Le mie investigazioni su materiali spesso inediti non solo vanno confermando tale ricostruzione, ma testimoniano piuttosto come l’Agonia, dal momento in cui arriva e trova spazio nella tradizione liturgico-cultuale italiana, abbia man mano seguito un proprio percorso, proponendosi anche come esempio formale-testuale da riproporre ed imitare. Nonostante questo, rimane comunque insoluto il problema di chi sia stato il redattore ultimo dei suoi testi italiani – in particolare quelli per musica, che non sono né la traduzione di quelli spagnoli né opera di Pietro Metastasio –, e di come mai abbiano poi trovato tanto consenso e seguito. Grazie però ai sempre più numerosi ritrovamenti di nuove partiture, l’Agonia sta man mano ritrovando una sua identità e dimensione cultuale ben più significativa, che ci spinge a ridiscuterla nuovamente e con maggiore attenzione. In questa linea, come anticipato, si pone la mia proposta, nata dall’empirica esperienza d’archivio e sostenuta principalmente dal recupero sistematico ed ecdotico-critico di molteplici, ma spesso sconosciuti testimoni di questa meditazione, sparsi principalmente nei fondi ecclesiastici del nostro paese e oggetto primario della mia disamina; proposito ultimo sarà quello di provare così a delineare una ricomposizione sincronica e diacronica della storia di questa forma e dei suoi contenuti, almeno rispetto la sua presenza in Italia.

 


 

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Víctor Sánchez

Zarzuela come operetta alla italiana. L’incontro di Nietzsche con La Gran Vía a Torino

In una lettera del 1888, Friedrich Nietzsche scriveva da Torino la sua sorpresa nello scoprire la zarzuela La Gran Via eseguita lì al Teatro Carignano. Entusiasmato dalla spontaneità e dal messaggio critico contro la società, lodava in particolar modo un terzetto di ladroni, che qualificata come “il più potente che avevo ascoltato o visto, ...geniale, impossibile da qualificare”. Si propone studiare il contesto di questo aneddoto per portare alla luce i seguenti aspetti:

1- L’intensa attività delle compagnie di operetta italiane, che circolavano con successo in tutto il mondo. Anche si ha documentato la loro presenza in Spagna e America Latina. 2- La capacità di assimilazione di queste comagnie di un repertorio vario, che includeva titoli italiani, operette francese (Offenbach, Lecocq), viennesi (Suppé, Strauss) e zarzuelas spagnole. 3- Esaminare come venivano fatti gli adattamenti in italiano del repertorio spagnolo, negli aspetti testuali come in quelli musicali. Di grande interesse è lo studio delle numerose registrazioni di compagnie italiane. 4- Riflettere sulla recezione di questo periodo in città anche molto distanti tra loro come Madrid, Torino, Parigi o Santiago del Cile. L’obiettivo principale di questo intervento è rivalutare la attività delle compagnie italiane di operetta, un genere poco studiato che non ha trovato spazio nelle grandi storie dell’opera. In città come Milano, Roma o Torino furono attivi molti teatri dediti a spettacoli musicali, a parte dei grandi centri conosciuti. Si cerca qui arricchire la mappa musicale, affinché si possa comprendere meglio la varietà e ricchezza del teatro musicale.

 


 

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Roberto Scoccimarro

I manoscritti paisielliani provenienti dal fondo dell’Opernarchiv e dalla Königliche Privat-Musikaliensammlung di Dresda: note sulla storia della ricezione della musica di Paisiello alla corte sassone

Nella biblioteca SLUB di Dresda sono conservati circa 70 manoscritti contenenti composizioni sicuramente attribuite a Giovanni Paisiello o in varie forme collegate al suo nome. La maggior parte di essi proviene dall’archivio della locale Opera (Opernarchiv) e dalla Reale collezione musicale privata (KPMS) della dinastia dei Wettiner. Scopo della presente relazione è la comprensione della ricezione della musica di Paisiello a Dresda, città in cui il compositore sembrerebbe non aver mai soggiornato, ma impegnata a rappresentare nei suoi teatri, accanto a lavori dei maggiori operisti italiani del secondo Settecento, diversi suoi titoli operistici. Dal 1769 al 1796 andarono in scena nei teatri di Dresda 18 opere del compositore, tutte di genere buffo. Alcune di esse presentano questioni non ancora risolte dalla ricerca musicologica. In diversi titoli il motivo di interesse è costituito, per prima cosa, dalla possibile identificazione delle arie aggiunte, solo in rari casi attribuite con sicurezza al titolo di provenienza e all’autore della musica. Accanto alla prevalenza dei manoscritti copiati da noti copisti attivi alla corte di Dresda, si nota la presenza di altre fonti realizzate in parte o interamente da copisti praghesi, viennesi e napoletani; appare così più che plausibile, quando non già confermata dall’evidenza filologica, la riutilizzazione locale di partiture paisielliane legate a versioni precedenti di sue opere allestite in Italia e a Vienna, o talvolta a esecuzioni programmate ma forse non più concretizzate. Come accadeva in pressoché tutte le piazze operistiche europee, il grado di accomodamento e rielaborazione rispetto alle versioni “originali” è generalmente elevato: per fare un esempio, la prima parte del Finale della commedia La Locanda, conservata a Dresda in un manoscritto napoletano, è stata espunta dalla partitura d’origine per essere reinserita nel manoscritto de Il Re Teodoro a Venezia, a sua volta di provenienza viennese. Profondamente diverso è il senso delle modificazioni riscontrabili in un rondò, Deh calmate oh Dio l’affanno, composto da Joseph Schuster per la sua commedia Il marito indolente (1782): basato su materiale tematico dell’aria Per costume o mio bel nome dalla Nitteti di Paisiello (1777), il pezzo è ricreato da Schuster in forma di rondò in due tempi – non più in uno come l’originale paisielliano – evidentemente al fine di aggiornarne le fattezze strutturali agli sviluppi più attuali del linguaggio operistico. Un caso particolare di possibile collaborazione compositore-cantante è offerto dall’aria Voi m’amate già lo vedo, aggiunta alla versione di Dresda degli intermezzi L’Amore ingegnoso (1786): nelle annotazioni apportate sul libretto da un anonimo membro della famiglia regnante si legge che il numero fu composto “par Paisiello et l’Allegranti elle même”. Ammesso che la notizia sia attendibile, si aprirebbe la questione, tutta da sondare, di una presenza di Paisiello a Dresda durante la preparazione dell’allestimento, o di una corrispondenza tra compositore e interprete. Un ultimo oggetto di studio è rappresentato dalla ricezione delle opere paisielliane a corte per mezzo di due manoscritti di musica strumentale legati alla figura di Anton von Sachsen, re di Sassonia dal 1827, ma nei decenni precedenti anche prolifico compositore; in tali pezzi strumentali vengono utilizzati materiali motivici appartenenti a Il Re Teodoro a Venezia e I filosofi immaginari.

 


 

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Philip Shields

Malipiero – Maverick or Magician of the Manuscript – From Straussian Stories to Debussian Descriptions

Re-discovery of Malipiero’s early symphonic scores from the dank cantina of his retreat in Veneto after his death in 1973, has allowed history to trace a watershed moment in music history: the transitional first steps of this great Italian composer between 1905-1906. For the immense good of the Italian musical canon, he made the monumental transition from the juggernaut of late Romantic Austro-German tradition to a more fragile, compact Italian musical language. That opportune re-discovery has been meagrely taken up in academic commentary little aware of Malipiero as cutting-edge composer respected by Dallapiccola and maestro to Maderna and Nono. It has been limited to scholarly liners notes attached to the first modern recordings of these works made between 1996 and 2010 and the monumental researcher John CG Waterhouse’s brief comments before passing away himself in April 1998. Prior to these sources, Rossi-Doria’s 1942 analysis of the second work Sinfonia del mare was the only attempt at a rigorous discussion of the early works highlighting Malipiero’s predilection for linear intersections over vertical homophonic textures, archaic resources as Gregorian chant and the pre-classical essence of Italian instrumental music. Rossi-Dora also noted Russian and Debussian French influences being superimposed and superseding those from the German Richard Strauss. This paper will revisit the analysis of Doria-Rossi of the 1906 Sinfonia del mare comparing it with a freshly-prepared analysis of the 1905 Sinfonia degli eroi to explain how Malipiero accomplished in two works, the significant emancipation from the more syntactical tonal world of Strauss to arrive in a terrain where Malipiero’s work is overwhelming dominated by new sounds, syntax having stepped largely back in a supportive role. The complexity of these works will be unravelled comparing the framework of Steven Vande Moortele’s two-dimensional sonata form1 with Thielmann’s panel form.2 Details of the emancipation, Malipiero’s first attempts to move beyond the Austro-German tradition to a renewed Italian musical language, will be audio-visually re-inforced. This paper will illustrate Malipiero as a generazione degli ottanta magician,3 rather than a maverick, in his move from the complexity of Sinfonia degli eroi and its link to an extra-musical text strikingly, and somewhat sulphurously, chosen from Dante’s Inferno to the evocative maritime description of Sinfonia del mare. It will further show that Malipiero’s emancipation caused a move from the binary origins of sonata form, with the presence of primary and secondary themes, to a ternary-orientated arch-form under which sit numerous evocative panels. Malipiero’s first step, as Ratner would concur,4 was thus an ordering of the sound of the episodic panels in precedence to syntactical norms and expectations

 

[1] Steven Vande Moortele, Two-dimensional Sonata Form : Form and Cycle in Single-movement Instrumental Works by Liszt, Strauss, Schoenberg, and Zemlinsky (Leuven: Leuven University Press, 2009). Available from: http://search.ebscohost.com/login.aspx?direct=true&db=nlebk&AN=437098&site=ehost-live.

[2] Beate Thiemann, ‘Die Sinfonien Gian Francesco Malipieros’ (Doctoral Thesis, University of Köln, 2001).

[3] The generazione degli ottanta were those Italian composers born during, or in Respighi’s case , just before, the 1880s.

[4] Leonard G. Ratner, Romantic Music: Sound and Syntax (New York, Toronto: Schirmer Books, 1992).

 


 

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Maica Tassone

Resilienze nei territori a rischio culturale: una prospettiva musicologica

Resilis è una parola latina che significa rimbalzare, ritornare in fretta. Il suo significato rimanda a un concetto complesso e a una capacità peculiare dei sistemi ecologici, biologici, sociali e dell’uomo di sopravvivere e resistere agli eventi negativi. Come scrive il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche nel 1888: «Quello che non ci uccide ci rende più forti». Un aforisma che ha ispirato generazioni di musicisti, appartenenti ai più diversi generi musicali, dal benevolo pop all’ispido metal, ma non solo. Resilis significa anche «forza d’animo», come testimoniano i filosofi Epitteto e Marco Aurelio, un termine che, mutuato dalla scienza dei materiali, indica la capacità di resistere e conservare la propria struttura o forma iniziale: materiali compressi, schiacciati e alterati riacquistano la propria forma originaria se liberati dal peso che li sovrasta e dalla deformazione. Applicata alla sfera dei sentimenti e alla struttura della personalità la parola indica la capacità di riemergere da esperienze difficili recuperando un’attitudine positiva nei confronti dell’esistenza. In questa relazione il termine viene applicato al linguaggio musicale, inteso come mezzo peculiare per una strategica lettura socio-economica di territori a rischio culturale. La cultura di un territorio e la sua musica si legano indissolubilmente ai racconti della vita delle persone, agli avvenimenti religiosi e all’avvicendarsi dei ritmi della natura, talvolta anche in relazione a eventi catastrofici che mettono in discussione confini, simboli e identità attivando percorsi rigenerativi. Sulla base di una ricerca storica compiuta negli archivi dell’area centro-italiana colpita dai recenti eventi sismici, questo intervento focalizza l’attenzione sulla presenza di musica in spettacoli e produzioni connessi a eventi catastrofici fra Sette e Ottocento, coniugando informazioni scientifiche, storiche e socio-economiche.

A partire dal Settecento, la nuova concezione di sublime incide in maniera determinante nella percezione sociale del terremoto. L’evento catastrofico diviene oggetto simbolico ed espressione del potere nelle produzioni musicali sacre e profane. Nel medesimo secolo, alla rappresentazione artistica simbolica del sisma si affianca una produzione musicale sacra prettamente celebrativa, legata per lo più all’intercessione di Sant’Emidio e della Vergine a protezione delle città del centro Italia, colpite e distrutte da un violento terremoto il 14 gennaio del 1703.

L’obiettivo più alto è quello di verificare la funzione peculiare della musica nella rigenerazione dei territori e delle loro identità culturali in prospettiva anche contemporanea.

 


 

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Marina Toffetti

L’Oratione delle lodi di Santa Cecilia (Milano, Agostino Tradate, 1599)

Nel dicembre del 1599 l’editore milanese Agostino Tradate, notoriamente dedito anche all’editoria musicale, diede alle stampe un libello intitolato Oratione delle lodi di Santa Cecilia vergine, e martire fatta e recitata dal m. R. P. Cherubino Ferrari – lo stesso al quale l’anno precedente aveva dedicato l’edizione di una Scelta di canzonette in cui i testi poetici dell’illustre carmelitano erano stati messi in musica dai più eccellenti musici milanesi.

L’orazione ci restituisce integralmente il testo del discorso pronunciato dal celebre teologo, predicatore, letterato e poeta durante i festeggiamenti organizzati con fasto inusitato in occasione della festa di Santa Cecilia (il 22 novembre 1599) presso la chiesa di Santa Maria della Scala a Milano, che videro il concorso di oltre cento musici milanesi fra cantori e strumentisti.

La relazione intende riassumere i contenuti dell’orazione, descriverne e commentarne lo stile, elencare i personaggi (mitologici, biblici, ma anche reali) esplicitamente menzionati al suo interno (a partire dal dedicatario), contestualizzare lo scritto sullo sfondo di analoghi discorsi coevi di carattere encomiastico, e infine formulare alcune ipotesi sui protagonisti e sulle circostanze del solenne evento celebrativo evocato dalle parole dell’oratore.

L’indagine sui contenuti dell’Orazione sarà inoltre corredata da un’aggiornata riflessione sulla figura del celebre carmelitano, oggi considerato come uno dei più significativi esponenti milanesi dell’estetica guariniana e come illustre seguace dello stile poetico di don Angelo Grillo. Ben noto agli studiosi per i fecondi rapporti che intrattenne con numerosi esponenti di primo piano dell’ambiente accademico (si pensi ai contatti con l’Accademia degli Inquieti e con diversi esponenti delle famiglie Sforza e Colonna), letterario e musicale milanese (e non solo: si pensi al suo rapporto di amicizia con Claudio Monteverdi), nonché a sua volta musico, Ferrari rivestì un ruolo di primo piano anche nell’organizzazione di eventi celebrativi pubblici di grande impatto sulla cittadinanza milanese.

 


 

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Andrea García Torres

Democratizing Italian opera: parody as an alternative way to reception in Madrid popular theatre during the late 19th century

The Italian opera repertoire in the 19th was the most leading musical movement in Spain, shaping all the music agenda of the country. Opera was always linked in Spain to the monarchy and the nobility, which had political, economical and cultural control even at the end of the century. However, operatic parody was a tool that allowed middle and low classes share high culture and identify with the upper classes, thus contributing to democratise theatrical spaces and repertoires. By this reason many labourers or charwomen knew the titles of Rossini, Donizetti or Puccini. Although this is important from the music sociology point of view, the relationship between Italian opera and its parody in Spain, as an alternative way of diffusion for this genre, has never been studied because it was not until recently that research on popular and frivolous theatre has been valued in the Spanish musicology field. Parody provides an alternative way to study opera acceptance, following the postulates by Hans Robert Jauss, where the active role of the Spanish receivers altered the discourse of Italian opera by adding many native stereotypes and sense of humour. Opera repertoire was diffused in the Spanish theatre called género chico, the cheapest frivolous spectacle programmed in Madrid during almost the three lastest decades of the century. This trend was developed powerfully in the 1880s, when the entertainment industry and the working masses started to show an increasing social presence. Parodies were composed inmediatly after the original title opening in the Teatro Real (Spanish National Opera), and programmed in lower quality theatres, affordables for most of the society. There was not a predominant Italian opera style to parodize, but have been successful in operahouses was a required condition. Thereby, Primo ottocento and verismo plays were used more often tan others written by Scapigliati composers, less known in Spain. In this study I will examine how parody contributed to spread Italian musical culture in Spain. The proyect aims to offer a new understanding of musical life in this country at the end of the 19th century, using methodological approaches from cultural studies, music sociology and frivolous lyric theatre. Moreover, I will outline and discuss how parody used Italian operatic canon both as a business for enriching local authors and as a defence of the country’s musical identity, thus fostering several controversies among composers, critics and audiences. After analysing the most representative parodies, this paper will compare them with Italian originals and other similar reactions in neighbouring countries. It will also define the cultural implications in the reasons why these plays attracted people from all social strata.

 


 

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Valentina Trovato

Riscoperta della musica antica a Milano: il caso di Giacomo Carissimi all’Angelicum negli anni Quaranta e Cinquanta

L’esperienza dell’Angelicum, istituzione nata a Milano in seno all’ordine dei francescani di Sant’Angelo a Milano, su impulso dell’illuminato padre Enrico Zucca, ha rappresentato un caso culturale più unico che raro tra le istituzioni culturali milanesi del Novecento. Inaugurato nel 1941, in pieno conflitto mondiale, l’Angelicum nasce con l’intento di «far sorgere una sede degna di riunire i Collegi dei professionisti e Artisti, i Terziari e gli Amici di San Francesco, in cenacolo di Spirito». Sul versante musicale si dotò di un’orchestra e di un coro, la cui attività nel dopoguerra si inserì nel percorso di riscoperta del passato musicale italiano, con programmi di concerto dedicati prevalentemente alla musica barocca alternati a programmi centrati sulla musica contemporanea. Su questa linea l’Angelicum fornì un modello alla Polifonica ambrosiana, istituita qualche anno più tardi da don Luigi Biella a San Bernardino alle Monache.

A orientare l’Angelicum verso la musica antica fu senz’altro il cremonese Ennio Gerelli, direttore dell’Orchestra fino ai primi anni Cinquanta, il quale riportò all’attenzione del pubblico milanese l’integrale delle Historiae sacrae di Giacomo Carissimi, eseguite e registrate su disco dalla neonata casa discografica omonima a partire dalla Stagione concertistica 1947/48. Concentrandosi sul repertorio oratoriale di Carissimi l’Angelicum fissava una propria linea di originalità rispetto ad altre istituzioni nazionali benemerite nel campo della musica barocca come l’Accademia Musicale Chigiana di Siena, la quale all’epoca aveva maturato un’esperienza di rilievo nelle opere di Monteverdi, Vivaldi, Alessandro Scarlatti e Pergolesi. Il ciclo carissimiano milanese si inaugurò con lo Jephte, salutato con parole entusiasmanti da Franco Abbiati sul «Corriere d’informazioni». Le edizioni utilizzate erano prodotte da Amerigo Bortone, maestro del coro dell’Angelicum, in anticipo sulle edizioni critiche curate da Lino Bianchi per l’Istituto Italiano per la Storia della Musica. La presente ricerca intende delineare l’attività di riscoperta degli Oratori di Carissimi intrapresa da Gerelli e Bortone all’Angelicum, attraverso documenti d’epoca (programmi di sala, riviste, articoli di giornale...), immagini, fonti musicali e l’ascolto di rare registrazioni, e contestualizzare l’esperienza dell’Angelicum nella cornice storico-sociale del secondo dopoguerra.

 


 

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Lucio Tufano

Paisiello e Mozart: sulla tradizione della Disfatta di Dario

Nel 1756 il Teatro di San Carlo di Napoli ospitò la prima rappresentazione del dramma La disfatta di Dario di Pasquale Cafaro. Il libretto, che recava la firma di Carlo Diodato Morbilli duca di Sant’Angelo, ricosse un significativo successo e in seguito, variamente ‘aggiornato’ nella struttura drammaturgica, fu intonato anche da Michelangelo Valentini, Giovanni Masi, Giovanni Paisiello, Tommaso Traetta e Giuseppe Giordani. La relazione proporrà una ricostruzione di questo processo di trasmissione e si soffermerà sulle sue tappe più importanti. In particolare si prenderà in considerazione l’opera di Paisiello (Roma 1776) e la speciale fortuna toccata a uno dei suoi numeri, l’aria di Dario Mentre ti lascio, o figlia, che godette di ampia circolazione in tutta Europa fino ai primi decenni del XIX secolo. Si esaminerà inoltre il pezzo chiuso corrispondente nella versione della Disfatta licenziata due anni dopo da Traetta (Venezia 1778). I versi del numero di Dario furono utilizzati da Mozart nell’omonima aria per basso K. 513, composta nel 1787 per Gottfried von Jacquin. Si tenterà pertanto di formulare qualche ipotesi circa i canali attraverso i quali il testo giunse nelle mani del compositore di Salisburgo e si effettuerà un confronto tra la realizzazione mozartiana e i due illustri precedenti italiani.

 


 

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Luigi Verdi

L’influenza della musica russa sui compositori italiani del primo Novecento

L’influenza della musica russa in Italia fu grande all’inizio del Novecento, in particolare sui compositori della cosiddetta generazione dell’Ottanta. Alfreda Casella parlò espressamente di “nuovo verbo slavo”, mentre Ottorino Respighi fu a Pietroburgo, frequentando le lezioni di Rimskij Korsakov, le cui smaglianti orchestrazioni gli furono certo di ispirazione. Sul modello del Gruppo dei cinque russo e soprattutto Musorgskij si formò in Italia nel 1911, la Lega dei Cinque: “Effettivamente Moussorgsky mi ha aiutato a vivere durante molti anni” ebbe a dire Ildebrando Pizzetti. Autore del manifesto della “Lega dei cinque” fu Giannotto Bastianelli, che proclamò: “la nostra opera deve essere conforme a quella dei pochi eroi della musica russa fra cui fiorì l’Omero russo, Modesto Moussorgsky, eroi che rigettando le lusinghe affaristiche degli imitatori servili delle musiche straniere, vollero creare al loro paese una musica nazionale”. Bastianelli fu anche il primo compositore italiano a riconoscere la grandezza di Skrjabin, la sua “fondamentale lezione innovatrice e la sorprendente modernità delle ultime sonate”, mentre Gian Francesco Malipiero ammise la sua ammirazione per Stravinskij scrivendo “Mi svegliai come da un lungo e pericoloso letargo la sera del 28 maggio 1913 avendo di fronte a me, Debussy, D’Annunzio, Ravel, tutti interessati ad ascoltare la «Sagra della primavera». Questo ricordo rimarrà sempre al centro di tutte le mie nostalgie.” La relazione si svolgerà con l’ausilio di numerosi esempi musicali audio-video, ponendo in primo piano il debito dei compositori italiani verso i russi nel rinnovamento della musica strumentale e nella creazione di una “nuova scuola nazionale”. Benché l’argomento sia stato a lungo dibattuto, verranno presentati esempi tratti da opere meno conosciute, mettendo in evidenza una serie di analogie nascoste, nella prospettiva di un approccio più articolato ed esaustivo.